CAMBRIDGE (MASSACHUSETTS) Immaginate la scena. Siamo nel 1996, a Manhattan, al 425 di Madison Avenue, nel boom dell’era Internet. Joanna Rakoff ha ventitré anni, non ha mai letto una riga di Salinger e si ritrova a lavorarci insieme. L’ufficio è un viaggio nel passato – con i suoi mobili massicci, i tappeti, l’illuminazione ovattata e l’odore di fumo. «L’agenzia non sembrava concepita per fare soldi: era un modo di vivere, una comunità, una religione»; e poi c’era lei, la capa, Phyllis Westberg, una vestale della tradizione. Sulla scrivania, Joanna trova una macchina per scrivere Ibm Selectric e un dittafono a pedali degli anni Sessanta.
La incontro da Harvest, un ristorante di Cambridge, Massachusetts, a pochi passi da casa sua. Nelle stesse ore Matthew Salinger, figlio ed erede dello scrittore, rilasciava una lunga intervista al Guardian, in cui ha sparato a zero contro le voci circolate su imminenti pubblicazioni del padre, e ha sottolineato che ci vorrà tempo prima di vedere nuove opere (altri dieci anni?) e che queste saranno per «lettori veri».
Lei era giovane, laureata, e ha trovato lavoro nella più antica agenzia letteraria d’America, la Ober Associates. Com’è successo?
«Non avevo idea di cosa volesse dire lavorare nell’editoria. Vengo dall’Ohio, anni luce dal gotha editoriale. A una festa un’amica mi ha allungato un biglietto da visita e mi ha detto "chiama questo editor", un tipo, ho capito dopo, piuttosto rispettato nel giro. Cercavano un’assistente, cioè una segretaria, per un agente letterario. Dopo due giorni ero lì a battere a macchina contratti di grandi scrittori. All’inizio, non mi sono resa conto di quanto il lavoro fosse sottopagato: a me 18.500 dollari lordi erano sembrati un’enormità».
Com’era il lavoro in agenzia?
«Erano del tutto insensibili all’avvento delle nuove tecnologie: non avevamo un computer, figuriamoci l’accesso a Internet. Tutto si faceva a mano, come una volta. Passavo il tempo a scrivere le lettere che mi portava la mia capa. A ogni minima correzione dovevo ribatterle da capo. Usavamo un sistema assurdo per tenere traccia degli invii agli editor: enormi schede rosa ideate dallo stesso Harold Ober ai tempi di Fitzgerald. L’agenzia era piena di vecchie procedure da seguire pedissequamente. Il mio incarico principale era rispondere alle lettere dei fan di Salinger: in pratica dovevo ogni volta seguire un modello predisposto nel 1963! C’erano giorni in cui battevo fino a trenta volte la stessa risposta. “Gentile xxx, molte grazie per la lettera che ha inviato a J.D. Salinger. Come forse saprà, il signor Salinger non desidera ricevere posta dai suoi lettori. Non possiamo quindi inoltrargli il suo cortese messaggio. La ringraziamo comunque per l’interesse che ha dimostrato verso i suoi libri…”. Quando ho proposto di fare delle fotocopie mi hanno guardato male. Quelle lettere erano piene di vita e io mi sentivo come se stessi (o se Salinger stesse) tradendo i suoi lettori. Scrivevano reduci che volevano condividere i ricordi della guerra, donne innamorate di lui, ragazzi incantanti dalla sua prosa. Avevano provato tutti quell’incredibile sensazione che Salinger fosse davanti a loro a sussurrargli le parole all’orecchio. Un giorno, all’improvviso, ho cominciato a rispondere in modo diverso. Non cercavo di imitare la voce di Salinger. Scrivevo come se fossi io, solo che si trattava di una versione molto profonda di me. Mi sentivo la guardiana protettrice di Salinger. È come se Salinger, con quella consegna al silenzio, mi stesse insegnando a scrivere».
Com’è stato il battesimo Salinger?
«“Salinger ci paga per non disturbarlo” mi ha detto subito la mia capa. “In tanti chiamano e scrivono ogni giorno per mettersi in contatto con lui. Ognuno con la sua storia e le sue buone ragioni. Non devi mai, per nessun motivo, dargli l’indirizzo o il numero di telefono”. E ha aggiunto: “Niente film, niente estratti, niente antologie, nessun paratesto sui libri, nessuna foto, nessuna biografia. Niente di niente. Salinger vuole che si legga solo ciò che ha scritto”. E così la prima volta che me lo hanno passato al telefono (perché la capa non c’era) per poco non mi prendeva un colpo. Ho sentito la voce di un signore anziano che urlava qualcosa di incomprensibile. Io gridavo “pronto, pronto, pronto”. Sapevo che era un tipo strano, ma non capivo perché urlasse in quel modo. Nessuno mi aveva detto che era parecchio sordo. Per fortuna dopo un po’ abbiamo trovato il modo per capirci e la mia ansia si è placata. Avevo l’impressione di parlare con una persona timida che si sentiva sola».
Quando gli ha confessato che scriveva poesie, lui si è sciolto e l’ha spronata a scrivere…
«Salinger era convinto che la poesia fosse la più spirituale delle forme artistiche e che rappresentasse il tramite per avvicinarsi alla divinità – qualunque cosa lui intendesse per divinità. La poesia è autenticità: devi avere un innato senso del ritmo, devi avere la lingua. Altrimenti sembri uno dei tanti phony che ci sono in giro».
E si è messo a darle consigli di scrittura.
«Sì. Gli insegnamenti che mi ha trasmesso sono gli stessi che uso ancora oggi. 1) Alzarsi presto la mattina e cominciare a scrivere prima di qualsiasi altra cosa; 2) Prendersi sempre sul serio. Mi diceva: “Tu non sei una segretaria, sei una scrittrice, una poetessa. Devi immergerti in quello che scrivi. È scrivere che ti rende uno scrittore».
A un certo punto, però, ha sentito il bisogno di leggere tutte le sue opere.
«Sì, per forza. È stata una questione di cuore e di necessità. Dovevo rispondere alle lettere dei fan che spesso citavano passaggi precisi dei racconti e del Giovane Holden, chiedendo cose molto specifiche. Dovevo conoscere tutto, perché stavo rappresentando Salinger, in tutti i sensi. È così che mi sono sentita un po’ come lui».
Che ne pensa delle recenti dichiarazioni di Matthew Salinger?
«Mi dà un gran sollievo sapere che Matthew Salinger stia dedicando tutte le sue energie alle opere inedite del padre. Per me è l’unico che può garantire l’irreprensibilità del padre nei confronti della pubblicazione: prendersi tutto il tempo necessario. Mi fido molto più di lui che di altri, che Salinger non l’hanno nemmeno conosciuto».
Ma torniamo alla Ober: il 1996 era pure l’anno in cui è uscito Infinite Jest di D.F. Wallace.
«Ricordo che andai a vedere Wallace al Kgb (locale di New York, ndr) con uno dei colleghi.
Ero rimasta incantata dalla sua timidezza e dalla sua lingua. Credo che la differenza tra Infinite Jest e l’orda di manoscritti pretenziosi che girano ora è che Infinite Jest è divertente e Wallace aveva un grande senso dell’umorismo, verso sé stesso e nei confronti del mondo».
Cosa suggerirebbe oggi a uno scrittore inedito che vuole pubblicare il suo manoscritto?
«La cosa migliore è farsi seguire da un agente, da qualcuno che si prenda cura di lui sotto tutti gli aspetti. Ho avuto la fortuna di vedere un modo di lavorare che non c’è più. Alla Ober c’era un codice d’onore, non si facevano le aste e si parlava di libri; si sceglieva la casa editrice giusta, l’editor giusto, quello che presumibilmente avrebbe seguito l’autore per tutta la carriera. Ora si gonfiano gli anticipi, si vende il libro a un editor e l’autore si ritrova a lavorare con un altro. La Ober era uno stile di vita e gli agenti si sentivano dei sacerdoti al servizio degli scrittori».