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 2019  febbraio 05 Martedì calendario

Un giorno con Guaidó

Juan Guaidó dice che no, lui non ha paura di essere arrestato, o ucciso. Ascolta la domanda, la solita, poi sorride e risponde con Neruda, «potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera».
Il centro di Caracas è inondato dal sole. L’appuntamento è per le 9.30, nella sede dell’Assemblea nazionale venezuelana, il parlamento, l’epicentro della crisi, il palazzo che sta tenendo in scacco il regime. Tutte le entrate sono chiuse, transennate. Si accede solo da un’ala dell’edificio, e questa è controllata dagli agenti della policia nacional, dai militari dell’esercito, dagli 007 del Sebin.
Gli uffici di Guaidó affacciano su un patio tropicale, con palme e agavi. La leggenda li racconta come un bunker. È una leggenda, appunto. Nella realtà ci sono solo un po’ di guardie del corpo e parecchi collaboratori, tutto qui. È vero però che raramente “il Presidente” può dormire a casa sua e che per comunicare usa solo Signal o, al massimo, Whatsapp.
Abito impeccabile, seduto dietro la grande scrivania presidenziale, Guaidó sta sbrigando la rassegna stampa. Un collaboratore gli mostra una copia dell’Economist, che gli ha dedicato la copertina, poi una di El Mundodove c’è una sua intervista. Legge brevemente.
Infine qualcuno gli mette davanti un iphone dove c’è un lungo messaggio Whatsapp: «Io – sospira Guaidó – la posizione italiana proprio non la capisco. E soprattutto non capisco questa cosa qui». Questa cosa qui è un post di Alessandro Di Battista, l’esponente M5S: «Se il Venezuela non avesse la prima riserva di petrolio al mondo oggi nessuno si interesserebbe ai diritti del suo popolo. Ci vuole coraggio a mantenere una posizione neutrale in questo momento, lo so. L’Italia non è abituata a farlo. Ci siamo sempre accodati in modo vile agli “esportatori di democrazia”. L’abbiamo fatto in Iraq, in Afghanistan, in Libia…».
Guaidó scuote la testa: «Io questo signore non lo conosco, mi dicono che è un politico influente da voi… Be’ dice cose incomprensibili, compara processi che non sono comparabili. Quello che sta succedendo qui è molto più profondo, complesso. Farne solo una questione di petrolio significa non conoscere le cose di cui si parla. Ma se vogliamo approfondire il tema dovremmo dire che il Venezuela negli ultimi dieci anni è stato il quarto Paese del mondo in termini di investimenti nel settore petrolifero. Più di noi solo Russia, Stati Uniti e Arabia Saudita. Però noi, oggi, estraiamo un milione di barili al giorno (un tempo erano otto), mentre Russia, America e Arabia Saudita, dieci. Non credo che serva un genio per capire che il regime si è rubato tutti i soldi destinati a migliorare l’industria petrolifera. Ecco, questo signore (Di Battista, ndr) ignora cosa sta accadendo qui. Ma la sua ignoranza porta anche al disconoscimento della lotta di un popolo. Una lotta che oggi è riconosciuta da tutto il mondo, da 26 nazioni europee su 28, dai Paesi africani, in Oceania… Venisse qui a farsi un giro, a vedere qualche ospedale, o magari qualche città di frontiera, a Boa Vista, si facesse due chiacchiere con i parenti dei nostri prigionieri politici, dei nostri esiliati...».
Innervosito, Guaidó si alza dalla sedia e si incammina attraverso un passaggio secondario del palazzo per la sala dell’assemblea plenaria, dove lo aspettano proprio i parenti dei prigionieri politici. «In questi giorni continua il discorso – sto parlando con molti italiani. Mi tengo in contatto con Salvini, e frequento gli italo venezuelani. Il mio stupore nei confronti della posizione dell’Italia è anche il loro». Molti sono preoccupati che una volta completata la transizione il nuovo governo li possa penalizzare in termini commerciali. Qui ci sono importanti aziende come Eni, Trevi, Saipem, ma anche molti piccoli imprenditori. «Noi siamo un popolo che tiene le porte aperte. Quindi non c’è questo pericolo. E però è anche vero che non prendere posizione in un momento come questo per noi equivale a schierarsi con l’oppressore».
La sala dell’Assemblea plenaria è gremita. Guaidó parla per mezz’ora, a braccio. Alla fine è un assedio. Soprattutto di donne.Anziane, giovani, giovanissime. Lui abbraccia tutte, dà una mano con i selfie e sorride. Poi torna, attraverso il solito corridoio, nel suo ufficio. Anche muoversi dentro il palazzo di cui è presidente è un problema. Nel 2017, Maduro ha istituito l’Assemblea costituente con lo scopo di svuotare il Parlamento delle sue funzioni. E le ha dato, come sede, lo stesso edificio. La convivenza è grottesca, oltre che complessa. Ogni tanto salta la luce, occorre prenotare l’aula per le votazioni, e scaramucce di varia entità sono all’ordine del giorno. «Il Paese è distrutto. Caracas è la città più violenta del mondo, l’inflazione la più alta del pianeta, negli ospedali non ci sono più medicine. Ecco cosa significa avere un dittatore alla guida di un Paese pieno di petrolio. Per questo sono certo che presto verremo riconosciuti da tutti, anche dai Paesi che ancora non l’hanno fatto. Anche dall’Italia».
È l’una passata, e tra un’ora c’è l’ultimo appuntamento della mattinata. Una conferenza stampa sugli aiuti umanitari che stanno arrivando dagli Stati Uniti. Secondo Guaidó sarà questa la tappa decisiva. «Abbiamo un numero compreso tra 150mila e i 300mila abitanti tra la vita e la morte. Se non ci sbrighiamo sono condannati. Nei prossimi giorni avvieremo la distribuzione. E allora metteremo l’esercito davanti al dilemma ultimo. State con il popolo del Venezuela, che vuole quegli aiuti, o con il dittatore che li vuole bloccare? Che poi a ben guardare è lo stesso dilemma anche dell’Italia».