Il Messaggero, 4 febbraio 2019
Intervista a William Kentridge
Ulisse è un uomo stanco, steso in un letto di ospedale. E il suo corpo malato diventa il campo di battaglia tra gli Dei che si disputano il suo destino. «I tuoni e le saette, la tempesta che gli scatena contro Nettuno vengono rappresentati da un angiogramma. Un mio disegno sul corso tempestoso del sangue nelle arterie, interrotto da un infarto. Perché le avversità del destino che funestano il viaggio dell’eroe verso Itaca si consumano dentro il suo cuore ferito». William Kentridge, artista sudafricano e del mondo, presenta la sua regia del Ritorno di Ulisse in Patria, capolavoro di Monteverdi, in scena al Teatro Massimo di Palermo dal 7 al 10 febbraio, con l’ensemble Ricercar Consort.
Autore di opere che occupano palcoscenici o musei, grandi schermi o grandi muri come quello su cui è nato Triumphs and Laments, il fregio monumentale lungo le sponde del Tevere, illumina ora il palco del lirico siciliano con proiezioni, disegni, luci che accompagnano con la musica il cammino di Ulisse. E in una corsia medica senza tempo, cantanti lirici, marionette e operatori dei puppet in legno offrono, in uno straordinario gioco di squadra, sfumature diverse del mito.
Un lavoro che ha una ventina d’anni.
«È cresciuto con me. Avevo 43 anni quando l’ho ideato e ora ne ho 63: è il mio percorso per tornare al punto da cui sono partito».
Spazia in più discipline e crea corti circuiti di fantasia, utilizzando linguaggi diversi per lo stesso lavoro: è questa la sua forza?
«Mi sono reso conto che in nessuna di queste espressioni riuscivo a eccellere, ma che solo mettendole in relazione veniva fuori l’essenza del mio messaggio».
Perché ha scelto Il Ritorno di Ulisse?
«Il punto di partenza è stato il lavoro con i puppet. E Ulisse il test su come una marionetta interagisce con l’opera. All’inizio la musica di riferimento sono stati i madrigali di Monteverdi nelle vecchie registrazioni di Nadia Boulanger. Ma avevamo bisogno di un po’ di narrativa e via via che si procedeva, i madrigali scomparivano e avanzava Ulisse. Il risultato, un’opera più breve dell’originale, è il frutto di un insieme di esigenze dettate dal peso delle marionette, non trascurabile, dai cantanti, dall’arrangiamento musicale curato da Philippe Pierlot e da me».
La sua passione per Monteverdi?
«Una musica che offre opportunità straordinarie di combinare i vari aspetti del mio lavoro. Lascia spazio. Nel prologo, Tempo, fortuna e amore, introduce il tema della fragilità umana. E da lì che è partito anche il mio viaggio».
La fragilità e il limiti dell’essere umano.
«Ho riportato il tema dell’impotenza dell’uomo nei confronti degli dei dentro il corpo. Gli infarti le malattie sfuggono al nostro controllo, come il destino. Un ictus può distruggere la nostra vita, come facevano gli dei nell’antica Grecia. Noi non crediamo più nelle divinità, non andiamo al tempio, ma in palestra. Proprio per venerare il nostro corpo, il nostro Dio. È questo il mio sguardo contemporaneo sull’Ulisse di Monteverdi, la nostra relazione con il Cielo».
Sul palco ci sono cantanti, marionette e operatori: come suddivide i ruoli?
«Ognuno offre un punto di vista. Ci sarà l’Ulisse eroico che torna a rivendicare la sua Penelope e l’Ulisse malato in un letto di ospedale. La lettura sta nell’assemblare più sfaccettature. Gli spettatori possono viaggiare da un interprete all’altro».
Il viaggio nei mari è un tema al centro della politica europea. Che cosa ne pensa?
«Il benessere dell’Europa affonda le radici nel passato, nelle conquiste, dall’Antica Roma fino al Colonialismo del XIX secolo. L’Europa ha attinto dall’Africa, dal Sudamerica, dall’Oriente. Il sudore e il lavoro di persone che nei secoli hanno contributo a costruire la bellezza e la ricchezza della società, oggi va restituito. Accogliendo o aiutando nei Paesi d’origine. Ma non chiudendosi dentro se stessi».
Il suo progetto all’Opera di Roma, a settembre Waiting for the Sybil.
«È parte di uno spettacolo suddiviso in due momenti. Il Costanzi possiede un’opera di Calder, una performance di più di 50 anni, Work in Progress, costruita sul movimento dei suoi mobile, con musiche delle Avanguardie italiane di allora. Io sono stato invitato per creare la seconda parte. Ho pensato che la carta, i frammenti di carta con cui mi esprimo da sempre fossero l’elemento giusto per aprire il dialogo con Calder. Pagine in movimento che immediatamente mi hanno evocato la Sibilla Cumana che scriveva i suoi vaticini sulle foglie. E ho immaginato un vento che fa volare le predizioni e mescola in un mulinello, come i mobile di Calder, i destini dell’umanità. Nella mia performance ci sarà anche la Sibilla del Paradiso di Dante. Con il volume che riuniva tutte la pagine della conoscenza e della sapienza del mondo. Ma quel libro, oggi, si disintegra, non c’è più. In scena ci sarà un grande testo, costruito con i collage, performer, proiezioni, dipinti. Un lavoro di 25 minuti con la musica che attraversa il suono dell’Europa, da Stockhausen, per arrivare alle melodie di chiesa sudafricana».
La sua relazione con Roma.
«È molto forte. L’ho visitata per la prima volta quando avevo sei anni e rimasi incantato e terrorizzato dalla Bocca della Verità. E continuo a guardarla con quegli occhi. Ignoro la spazzatura non raccolta e le migliaia di turisti. Oggi mi sorprendo ed emoziono per le strade piene di storia, il cibo meraviglioso, la bellezza, i colori come accadde tanti anni fa a un bambino cresciuto in Sudafrica».