Il Messaggero, 4 febbraio 2019
Come si studia il linguaggio dei neuroni
L’interazione tra le ricerche sul cervello e lo sviluppo di computer più performanti prende direzioni sempre nuove e promettenti. Se da un lato il nostro cervello è usato come lo standard di riferimento più elevato per l’Intelligenza Artificiale, c’è un altro settore di studi che compie il tragitto opposto: indaga sul funzionamento della mente adoperando l’approccio degli hacker informatici. È una disciplina chiamata neural coding: analizza la codifica neuronale dell’informazione prendendo a esempio modelli matematici. Il parallelo con gli hacker è evidente: i ricercatori cercano di crackare, cioè violare il linguaggio segreto del cervello per decifrarlo e replicarlo, così come fanno i pirati informatici quando tentano di violare un software.
È un settore scientifico con grandi potenziali, soprattutto in medicina, e che impegna una rete di centri presente nelle principali università del mondo. Tra questi, uno dei più avanzati è quello dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), con quartier generale a Genova. I successi ottenuti nella decifrazione del codice cerebrale da parte di due scienziati, Stefano Panzeri del Centro di neuroscienze dell’IIT di Rovereto e Tommaso Fellin della sede genovese, hanno attirato l’attenzione del National Institutes of Health statunitense, che ha appena finanziato queste ricerche con tre milioni di dollari. Abbiamo intervistato Stefano Panzeri.
Quale percorso vi ha portato alle vostre scoperte?
«Alla base c’è il modello proposto dalla statistica: pensare che un’azione macroscopica del cervello, possa essere spiegata in base a una interazione a livello microscopico. Chi osservava l’attività dei singoli neuroni e la loro relazione con la percezione del mondo esterno, era portato a giudicare la relazione tra i neuroni come poco affidabile. Era incomprensibile come un comportamento fallace a livello microscopico portasse a un comportamento complessivo, la percezione per restare in questo esempio, perfettamente funzionante. Era come se un computer, costruito con microprocessori fallaci, non sbagliasse mai. Le strade erano due. O, una volta insieme, i neuroni producevano una sorta di magia; oppure gli studiosi sbagliavano approccio».
Che cosa avete scoperto?
«Erano vere entrambe le ipotesi. I neuroni si aiutano: ognuno corregge l’errore dell’altro e insieme sono affidabili; e non si guardava nel modo giusto. I ricercatori avevano adottato una scala temporale troppo lenta, per giudicare la risposta dei neuroni, che invece agiscono ancora in fretta».
Qual è il vostro obiettivo?
«Crackare il codice neurale, cioè capire come funziona il meccanismo per cui se vediamo una faccia e la riconosciamo, poi l’occhio manda degli impulsi alla corteccia e i neuroni rappresentano a noi l’informazione ricevuta dall’esterno. Comprendere come i neuroni traducano il linguaggio che serve al riconoscimento di un volto, in un altro linguaggio elettrico tra i neuroni stessi. Vogliamo capire che cosa si dicono tra loro. È come se li ascoltassimo di nascosto per scrivere il dizionario che collega il mondo interno alla mente con quello che dialoga con l’esterno. Una volta scritto il dizionario, potremo parlare la loro lingua. Se riusciamo a replicare il loro linguaggio quando vedono qualcosa, poi non c’è bisogno di far vedere al soggetto il volto della zia. Basta scrivere il messaggio che dice al cervello che in quel momento sta proprio vedendo la zia».
Che cosa siete riusciti a ottenere?
«In un esperimento condotto insieme al centro di Harvard e pubblicato su Nature, abbiamo scoperto il codice neurale che codifica la posizione di un oggetto che produce un suono; il linguaggio che nel cervello serve a localizzare le fonti sonore. Insieme al collega Tommaso Fellin, abbiamo pubblicato sulla rivista Science i risultati di un esperimento in cui, utilizzando tecnologie ottiche e sempre allo scopo di decifrare la lingua usata dai neuroni, siamo riusciti a far arrivare piccoli fasci di luce ai singoli neuroni interessati, creando un’impronta olografica. È come un interruttore con cui far giungere al cervello le sensazioni esterne, rendendo sensibili alla luce le aree cerebrali responsabili della percezione».
Quali sono gli sviluppi futuri e le altre ricerche in corso?
«Partendo dalle seconde, il National Institutes of Health ha per esempio capito come manipolare il bulbo olfattivo per ricreare le sensazioni odorose. Quanto al futuro, lo scopo è riuscire ad aiutare le persone che hanno gravi disturbi agli organi periferici: danni importanti all’occhio o all’orecchio. Un giorno useremo una telecamera o un microfono abbinati a un chip, che converte le informazioni esterne e manda dei segnali specifici ai neuroni che ricreano le sensazioni. Una simulazione per ridare vista e olfatto. Queste ricerche si basano sullo stesso metodo, la decrittazione, che nella Seconda guerra mondiale portò Alan Turing a decifrare il Codice Enigma usato dai nazisti».
È possibile integrare protesi sensoriali al cervello?
«A livello di periferiche, l’interfaccia funziona. Per esempio con gli impianti cocleari. A livello più profondo, non sappiamo ancora».
Quanto tempo ci vorrà e qual è l’ostacolo più grande?
«Decenni. Però ci possono essere accelerazioni impreviste. Intervenire sulla parte periferica è abbastanza semplice. Per entrare nella corteccia ci vogliono grandi sviluppi della medicina miniaturizzata. Io ho 51 anni e spero di riuscire a vederli».