Libero, 4 febbraio 2019
Figli incapaci. Due aziende su tre falliscono senza il fondatore
In fondo per capire basta guardare una foto di Piazza Duomo di quaranta o cinquant’anni fa. Le insegne luminose di Palazzo Carminati che rendevano il centro di Milano simile a Times Square o a Piccadilly Circus. Luccicanti di futuro. Molte di quelle luci purtroppo si sono spente ben prima che il Comune decidesse che il decoro della città non era compatibile con questo inno abbagliante al consumo. L’amaro Cora non c’è più (fallito nel 1984). La Cinzano dal 1999 appartiene al gruppo Campari dopo l’uscita di scena degli eredi di Giovanni Giacomo e Carlo Stefano Cinzano che nel 1757 avevano sostanzialmente inventato il vermouth in Italia. La Candy, altra grande insegna di Palazzo Carminati, è stata appena venduta ai cinesi. La seconda generazione della dinastia Fumagalli non se l’è sentita di andare avanti. Troppo difficile il mercato, troppi investimenti, troppo grandi i competitori. E così la storia di Niso Fumagalli che aveva scoperto la lavatrice mentre era prigioniero negli Stati Uniti finisce negli albi della memoria. Aveva copiato gli ingranaggi girando per le celle. Quella degli elettrodomestici bianchi è una storia da raccontare. Giovanni Borghi (Ignis), Aristide Merloni (Ariston), i tre fondatori della Indesit (Armando Campioni, Adelchi Candellero, Filippo Gatta) Lino Zanussi e Zoppas, Niso Fumagalli, il fratello Peppino e il padre Eden avevano costruito il paradiso delle casalinghe: cucine, frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici. Ancora quarant’anni fa l’Italia era il più importante polo del bianco in Europa e il secondo al mondo. Che cosa è rimasto? Pochissimo: tranne la piccola Smeg, che ha introdotto elettronica, design e colori sgargianti in cucina, non c’è più nulla di italiano nel polo del bianco. Qualche marchio (ogni tanto) e pochi stabilimenti sempre a rischio chiusura.
OFFICINE E MARKETING
Certo tutto è cambiato. Una volta bastava produrre che poi il mercato sarebbe andato da solo perchè mancava tutto. Il paradiso per gli imprenditori di allora: bravissimi in officina, a disagio nel marketing. E oggi? Di nuovo non nasce molto e le aziende di un tempo stentano a passare da padre a figlio per cause che spaziano dalla scarsa lungimiranza al fatto che leader troppo anziani non lasciano spazio ai giovani. Secondo l’indagine annuale di Mediobanca e Unioncamere il passaggio generazionale è ancora troppo ingessato e mette a rischio la sopravvivenza delle medie imprese familiari. Per circa la metà, infatti, il trasferimento delle deleghe è reso complicato dalle resistenze dei fondatori (46% dei casi) o dalla difficoltà a trovare nel perimetro familiare competenze adeguate. Nel 70% dei casi, inoltre, l’apertura ai manager esterni è modesta. A complicare il quadro, secondo l’ultimo Osservatorio Aub promosso da Aidaf (Associazione italiana delle aziende familiari), Unicredit e Bocconi i fondatori non hanno nessuna intenzione di andare in pensione. Non a caso una impresa su quattro ha un capo (presidente o amministratore delegato) con più di 70 anni. I vecchi non si vogliono fare da parte e la nuova generazione non cresce. Il Consiglio Nazionale del Notariato evidenzia come solo nel 18% delle successioni sia presente un testamento, mentre gli imprenditori che affrontano annualmente il problema della pianificazione del patrimonio familiare rappresentano solo il 2% del totale. Secondo dati Prometeia Banca d’Italia, due terzi delle aziende non arriva alla seconda generazione e solo il 15% supera la terza. E allora ce la possiamo raccontare come vogliamo: la recessione, la globalizzazione, le tasse che salgono e le banche che riducono il credito. La Borsa che non funziona. Poi si scopre che alla base c’è un solo insostituibile fattore di successo: il capitale umano. Lo spirito imprenditoriale. Quello c’è o non c’è. E purtroppo non si trasmette con il dna. Stefanel (ma è solo un esempio fra i tanti) sotto la guida di Bepi è sull’orlo della bancarotta. Il padre Carlo, partendo da una bancarella di ambulante che vendeva gomitoli di lana aveva costruito un impero. I figli hanno fatto la Bocconi e hanno conseguito l’Mba ma, come ricorda Giulio Bastia, direttore generale di Banca Finnat che gestisce solo grandi patrimoni, sono privi del fuoco paterno: la conoscenza del prodotto, l’idea e soprattutto la passione. Le cronache di questi giorni raccontano il mal di pancia della famiglia Benetton per la sucessione di Gilberto. Troppe le teste da mettere d’accordo. Ci sono Luciano con i cinque figli (Mauro, Alessandro, Rossella, Rocco e Brando), i quattro di Giuliana (Paola, Franca, Daniela e Carlo), le eredi di Gilberto (Barbara e Sabrina) e i cinque di Carlo morto a luglio (Stefano, Massimo, Andrea, Christian e Leone).
LITI IN FAMIGLIA
Le liti in famiglia la divisione del patrimonio, ci sono dovunque. Ma in questa classifica della litigiosità il Veneto sembra raggiungere vette più alte delle Dolomiti, orgoglio mondiale della Regione. Leonardo Del Vecchio, a 83 anni guida ancora Luxottica dopo aver messo fuori dall’azienda il figlio Claudio. La famiglia Tabacchi (Safilo) si è separata in modo molto costoso, il polo della scarpa di Belluno che vent’anni fa era un riferimento mondiale si è perso nella nebbia. La dinastia Riello si è divisa. Gli eredi Marzotto hanno dissolto l’impero ma almeno avevano resistito per quattro generazioni. In fondo anche la saga Mondadori ha molti agganci in Veneto. Il fondatore Arnoldo era cresciuto a Verona e nella città scaligera aveva collocato le officine tipografiche, cuore industriale del gruppo. Le lacerazioni della famiglia Mondadori non sfigurerebbero in una corte rinascimentale. Alberto che litiga con il padre. Giorgio, l’altro figlio di Arnoldo che viene messo fuori dalle sorelle Cristina (sposata Formenton) e Mimma (sposata Forneron). Il potere che passa al marito di Cristina, Mario Formenton. Alla sua morte lo scontro che segnerà la finanza italiana per vent’anni. Cristina si allea con Carlo De Benedetti. Mimma con Berlusconi. Alla fine le alleanze nella famiglia si girano ancora e Segrate finisce al Cavaliere. Il rancore fra Carlo e Silvio diventa insanabile.
FINE DEI SOGNI
L’Ingegnere potrebbe dedicarsi alla Olivetti di cui è diventato socio di riferimento. Invece preferisce inseguire altri obiettivi. Così oggi Olivetti è poco più di un marchio nella galassia Tim. Eppure sul finire degli anni ’50 sembrava potesse aprirsi ad un orizzonte planetario. A Ivrea nasce, sotto la guida di un tecnico d’eccezione come l’ingegnere italo-cinese Mario Tchou l’Elea. Sta per Elaboratore Elettronico Aritmetico. È il primo calcolatore realizzato interamente in Italia e sul piano tecnologico è il più avanzato al mondo. Cinque anni dopo è tutto finito. Nel febbraio 1960 muore Adriano Olivetti. Roberto, che ne prende il posto, non è suo padre. A novembre 1961 l’azienda perde anche Mario Tchou vittima di un incidente stradale. Servono soldi e strategie. A Ivrea non ci sono. Le banche scalpitano e a maggio 1964 il gruppo di intervento guidato da Mediobanca mette Bruno Visentini alla presidenza. Elea è venduta a General Electric. Si chiude il sogno digitale. Ma non finisce qua. A qualche centinaio di chilometri di distanzapresso l’istituto Donegani di Novara Giulio Natta realizza la plastica usa e getta. La battezza Moplen e il suo brevetto potrebbe mettere la chimica italiana all’avanguardia nel mondo. Il colpo di pistola che il 23 luglio 1993 pone fine all’esistenza di Raul Gardini chiude l’era della grande chimica italiana. Gardini ha scalato la Montedison, ha creato Enimont, ha gridato: «La chimica sono io». In quindici anni ha polverizzato il patrimonio ricevuto dal suocero Serafino Ferruzzi.