L’Economia, 4 febbraio 2019
Siamo rimasti senza stimoli?
La politica monetaria è stata «non convenzionale» per oltre quattro anni nell’Eurozona. In teoria è finita con lo scorso dicembre. Ora, potrebbe diventare «extra». Nel senso che il cambio di stagione nell’economia dell’area e del mondo probabilmente spingerà la Banca centrale europea a mettere in campo strumenti, vecchi o nuovi, per affrontare i rischi di recessione. Cioè un extra di stimolo.
Soprattutto perché lo spazio di bilancio che i governi nazionali hanno per contrastare una contrazione economica è scarso, visti i debiti pubblici elevati: nel complesso dell’Eurozona sono più alti di dieci anni fa, prima della crisi. In altri termini, è probabile che Mario Draghi debba ancora una volta intervenire in sostituzione di governi che in questi anni recenti di crescita non hanno fatto ciò che egli stesso ha continuamente consigliato di fare: «ricostituire buffer fiscali», cioè cuscinetti di bilancio da utilizzare nei momenti di crisi.
La ricercaUn’analisi pubblicata nei giorni scorsi da Oxford Economics ha stabilito che tre Paesi dell’area euro «hanno fatto uso dei tempi relativamente buoni» per essere pronti ad affrontare una recessione: Germania, Olanda, Austria. Gli altri hanno spazi di manovra – cioè di spesa o di riduzione delle tasse – limitati.
Anche quei tre Paesi, però, possono fare poco per sostenere l’economia di tutta l’Eurozona. Se Berlino varasse uno stimolo di bilancio di 35 miliardi (circa l’1% del Pil), la crescita tedesca migliorerebbe tra lo 0,5 e lo 0,6% dopo sei trimestri, secondo lo studio di Oxford Economics. Il riverbero sui Paesi vicini sarebbe però molto inferiore: per Italia, Francia e Spagna di circa lo 0,1%, per l’intera area della moneta unica poco più dello 0,2%.
Se la recessione fosse severa e prolungata, «le reazioni dei mercati possono essere molto forti, forse in grado di sollevare ancora la prospettiva di una rottura dell’Eurozona», avverte lo studio. Soprattutto perché alcuni Paesi, in particolare l’Italia, hanno posizioni di bilancio che li rendono vulnerabili.
La Bce, dunque, probabilmente vedrà ricadere sulle proprie spalle buona parte del peso del rallentamento dell’economia: nemmeno gli ultimi mesi di Draghi a Francoforte (il suo mandato non rinnovabile scade con ottobre) saranno una passeggiata. Come egli stesso ha sostenuto, però, la Bce ha «la cassetta degli attrezzi» fornita di strumenti utilizzabili in caso di serio rallentamento. Uno del quale si discute da qualche tempo è il rinnovo dei finanziamenti a tassi vantaggiosissimi per le banche (Tltro): ma sarà utilizzabile solo se necessario per l’intera Eurozona, non per qualche singolo Paese – ha assicurato Draghi all’ultima conferenza stampa. E, se ce ne fosse bisogno potrebbe essere lanciata una nuova fase di Quantitative Easing (QE), il programma di acquisto di titoli sui mercati da parte della Bce terminato lo scorso dicembre.
Da questo punto di vista, è interessante un report appena pubblicato da Morgan Stanley proprio sulle conseguenze che può avere la fine del QE. Gli economisti della banca americana calcolano che gli effetti del programma di acquisto di titoli siano stati «altamente efficaci» nello stimolare l’economia, con un’aggiunta di 0,6 punti percentuali alla crescita dell’aera ogni anno, dal 2015 al 2018. Meno forte l’impatto sulla crescita dell’inflazione: una spinta attorno allo 0,1-0,2%. Ora che la Bce ha cessato di effettuare acquisti netti di titoli, l’effetto sarà inevitabilmente una riduzione dello stimolo. Ma molto relativa, in sé, secondo Morgan Stanley: anche perché la Bce continuerà a reinvestire nei mercati i proventi dei titoli nel suo portafoglio che vanno a scadenza, attorno ai 15 miliardi al mese per quest’anno. Lo studio calcola un impatto negativo sul Pil dell’Eurozona dello 0,1% e nullo sull’inflazione.
Il fronte Usa Qui arriva però la questione Federal Reserve. È vero che la banca centrale americana ha deciso, all’ultima riunione, di rallentare il rialzo dei tassi d’interesse. È però anche vero che è in fase di Quantitative Tightening (QT), cioè di riduzione (vendita) dello stock di titoli che aveva comprato durante il suo programma di Quantitative Easing. La combinazione di stop agli acquisti netti della Bce e di ridimensionamento del bilancio della Fed avrà un effetto restrittivo più significativo, dello 0,2-0,3% sul Pil (e nullo sull’inflazione).
Se si paragona il ciclo dell’area euro a una maratona – spiega Morgan Stanley – nella fase iniziale c’è una riserva di lavoro (energia) che consente di mantenere una buona crescita dell’economia (un buon passo). Ma quando, procedendo, c’è sempre meno capacità produttiva inutilizzata (energia), il ritmo deve diminuire. «In generale, questo è ciò che sta accedendo da qualche tempo in numerose economie avanzate». La rimozione degli stimoli da parte di Bce e Fed «continuerà a restringere le condizioni finanziarie, cioè gli steroidi che hanno sostenuto l’atleta economico mentre la fatica si faceva sentire», indica l’analisi.
Gli economisti della banca americana introducono poi una considerazione interessante. Sostengono che, «impegnandosi a fare qualsiasi cosa necessaria (whatever it takes) per preservare l’euro, la Bce ha spinto i mercati a escludere la possibilità di una rottura dell’unione monetaria. Noi crediamo che, di gran lunga, questo sia il maggiore contributo che la banca abbia dato». Affermazione che solleva un interrogativo. Se le condizioni economiche e finanziarie dell’Eurozona dovessero volgere al peggio, in caso di recessione rilevante e di attacchi ai Paesi deboli Draghi o un suo successore potrebbero usare un’affermazione del tipo di Whatever it takes sperando nello stesso effetto che questa ebbe nel luglio 2012? Un nuovo avvertimento, appunto «extra», ai mercati? Oppure un colpo magistrale del genere si può fare una sola volta nella vita? C’è da riflettere, mentre all’orizzonte si addensano nuvole: la prossima guerra non è mai uguale alla scorsa.