Corriere della Sera, 4 febbraio 2019
Roma libera un po’ ingrata
A ricordare l’ingresso delle truppe alleate a Roma nel giugno del 1944, nella capitale c’è soltanto una piccola targa bilingue collocata nel 1994 in un giardinetto della piccola piazza San Marco, a fianco di Palazzo Venezia, in cui è scritto: «A cinquant’anni dalla liberazione di Roma in memoria di tutti i caduti della campagna d’Italia». Ad essa – nota Gabriele Ranzato in La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (8 settembre 1943 – 4 giugno 1944), in uscita giovedì 7 febbraio per i tipi di Laterza – è stato accostato nel 2006 un non grandissimo bassorilievo in cui si mostra una scena di fraternizzazione tra il popolo e alcuni armati che – «senza elmetti in capo né uniformi evidenti» – non sono assolutamente individuabili come soldati angloamericani. Sul fianco compare questa iscrizione: «4 giugno 1944. Liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista grazie al sacrificio e all’eroismo delle forze alleate, dei partigiani italiani e dei cittadini di Roma». Questo è tutto per quel che riguarda la gratitudine nei confronti dei soldati che vennero da Oltreoceano a liberarci da nazisti e fascisti. Non un granché.
Una spiegazione di questa assenza di gratitudine può essere ricondotta al fatto che già all’epoca sul rapporto tra angloamericani e antifascisti italiani impegnati nella Resistenza – come già ebbe a notare Rick Atkinson in Il giorno della battaglia. Gli Alleati in Italia 1943-1944 (Mondadori) – pesò una «reciproca mancanza di conoscenza». I primi «non avevano consistenti indizi dell’esistenza – non solo a Roma, ma per qualche tempo anche nel resto d’Italia – di un corposo movimento resistenziale al quale potessero attribuire un pur minimo ruolo strategico nella loro guerra; i loro tentativi di mettersi in contatto con le forze che combattevano il fascismo in questa o quella città per valersi del loro aiuto furono «limitati, improvvisati e alquanto poveri di risultati». Gli uomini della Resistenza romana per altro verso «potevano sapere molto poco circa la conduzione della campagna d’Italia da parte alleata, condizionata dalle contrastanti visioni politico-strategiche di Stati Uniti e Gran Bretagna». Inoltre la Resistenza romana, dopo lo sbarco di Anzio (22 gennaio 1944), visse «con frustrazione, e anche risentimento, il mancato arrivo dell’esercito angloamericano alle porte della città». Arrivo che ci si aspettava imminente «secondo un’illusione effettivamente alimentata soprattutto dalla componente britannica degli stessi comandi alleati».
Certo, gravava su quei mesi tra l’autunno del 1943 e la tarda primavera del 1944 la gestione delle trattative armistiziali con l’appendice «tragica e perfino grottesca» della «finta disponibilità dell’Italia badogliana a dare un immediato contributo bellico agli Alleati», a cui si era aggiunto il «disonorevole» abbandono ai tedeschi della capitale. Cose che avevano reso più che evidente come l’iniziativa dell’armistizio non fosse dovuta a una «trasformazione antifascista» della classe dirigente italiana, la quale, peraltro, con il fascismo si era largamente compromessa, né ad una volontà di redimersi con un consistente impegno militare, come avrebbe imposto un vero cambiamento di fronte. Era solo, quello italiano, un modo di «sfilarsi dalla guerra, da qualsiasi guerra lasciando che il Paese fosse solo il teatro di vicende belliche in cui il compito di sconfiggere la Germania nazista fosse riservato esclusivamente o quasi agli eserciti alleati».
Ci sono poi varie indicazioni del fatto che, pur aspirando i romani ad essere liberati dall’esercito alleato, essi non lo sentivano affatto come «un esercito che stava combattendo la loro guerra». Nonostante ciò, al momento della liberazione gli abitanti della capitale mostrarono nei confronti degli angloamericani un sentimento di riconoscenza destinato a durare. Anche se questo apprezzamento «non va disgiunto da osservazioni critiche circa la loro condotta militare», soprattutto quella dei loro servizi segreti a Roma sotto l’occupazione nazista. Si può forse ritenere, sostiene Ranzato, che alle vicende di quei servizi in alcuni casi eroiche – come documentato dai ricordi dell’ufficiale americano Peter Tompkins Una spia a Roma (il Saggiatore) – «ma per lo più scombinate e talora tragicomiche» venga dato in genere uno spazio eccessivo. Ma poiché la causa della loro «inefficienza» appare essere stata l’inadeguatezza, oltre che degli agenti sul campo, soprattutto della loro centrale presso la Quinta Armata del generale Clark (e forse andrebbe ricercata «ancora più in alto»), «sarebbe stato reticente e parziale non mostrarla con tutti i dettagli offerti dalla documentazione» in cui l’autore si è via via imbattuto.
E dal momento che siamo in tema di ciò che non andò per il verso giusto, aggiungiamo che nella Roma nazista «gli antifascisti erano in pochi», che Chiesa e combattenti fedeli a Badoglio scoraggiavano eventuali attentati nel tentativo, sostenevano, di «attenuare la spietatezza dell’occupante». Con ampio riferimento al libro di Andrea Riccardi L’inverno più lungo. 1943-44 Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma (Laterza), Ranzato assolve Pio XII dall’accusa di aver imposto un freno «a un popolo incline all’insurrezione». Il «freno» fu «invece» posto dal «desiderio popolare largamente diffuso di sfuggire alla guerra e di trovare avallo, espressione e riparo nel Pontefice». Oltretutto tantissimi romani, «avevano sostenuto per accettazione patriottica o anche con entusiasmo la guerra predatrice dell’Italia fascista, pronti certamente ad accogliere con tripudio l’esercito italiano qualora avesse ottenuto la vittoria e imposto ai popoli sconfitti il suo dominio». Sicché «era difficile che quel popolo vedesse la necessità di riparare ad una colpa collettiva».
Nonostante ciò, soprattutto tra il dicembre del 1943 e il marzo del 1944 tedeschi e fascisti repubblicani subirono «un numero consistente di attacchi anche mortali». Compiuti «quasi esclusivamente» dai Gap comunisti, gruppi il cui nucleo «centrale» era costituito per la maggior parte «da giovani di classi medio-alte, per lo più studenti». Destinati a diventare l’asse portante del gruppo dirigente del Pci nel dopoguerra. Anche se «il fatto incontrovertibile che la loro meta fosse allora un sistema politico sociale di tipo sovietico» comporta, scrive Ranzato, che «fosse più che lecito opporsi all’affermazione in Italia del loro partito».
Il contributo alla lotta armata del Partito d’Azione e dei socialisti fu, quantunque l’avessero scelta, «piuttosto limitato». Quasi del tutto «prive di riscontri» risultano essere «le imprese vantate dal movimento Bandiera Rossa», comunisti dissidenti ai quali Ranzato dedica pagine molto interessanti. L’assenza di riscontri, chiarisce lo storico, non comporta che quel movimento, «come le altre formazioni della Resistenza, e forse anche di più» non abbia avuto un alto numero di caduti; «ma non si può stabilire affatto una proporzionalità diretta tra le vittime della repressione tedesca e le azioni compiute». In ogni caso la presenza di questi partigiani nella lotta per la liberazione della capitale è da anni al centro di un interessante dibattito già documentato da Enzo Piscitelli in Storia della Resistenza romana (Laterza), Silverio Corvisieri in Bandiera Rossa nella Resistenza romana, ma anche Il re, Togliatti e il Gobbo (Odradek) e Roberto Gremmo in I partigiani di Bandiera Rossa (Edizioni Elf). Dibattito nato dalla circostanza che i combattenti di Bandiera Rossa – osteggiati dal Partito comunista italiano – avrebbero voluto privilegiare la lotta rivoluzionaria anticapitalistica rispetto alla liberazione perseguita in alleanza con forze borghesi; e, di conseguenza, presero le distanze dall’azione militare di via Rasella («L’atto terroristico non appartiene alla strategia marxista», scrisse «Direttive Rivoluzionarie», un organo del movimento); anche se poi un nutrito gruppo di loro militanti ne pagò le conseguenze trovando la morte, per mano nazista, alle Fosse Ardeatine. La discussione si incentrò soprattutto sulla loro rivendicazione a proprio merito (ma senza riscontri) di importanti episodi di lotta armata.
Il caso più eclatante si ebbe in margine alla concessione – con decreto luogotenenziale e sulla base di una lunga relazione sottoscritta addirittura dal generale badogliano Roberto Bencivenga – di una medaglia d’oro per meriti resistenziali a Vincenzo Guarniera. Il quale Guarniera fu oggetto di molte polemiche (e subì anche traversie giudiziarie) che portarono nel 1950 alla revoca della medaglia suddetta. Nelle pieghe di questo caso e di altri consimili vennero fuori margini di ambiguità sull’effettiva consistenza e portata delle azioni del Movimento comunista d’Italia, a cui si rifaceva Bandiera Rossa.
Ma se, scrive l’autore, può destare «più di una perplessità l’effettiva portata delle azioni rivendicate dal Mcd’I, non c’è dubbio che invece molti dei suoi militanti furono oggetto di una spietata repressione tedesca in seguito a numerose catture attuate grazie all’opera di provocatori e spie». Perché questo accanimento nazista contro Bandiera Rossa? È probabile, risponde lo storico, che «più che per la sua pericolosità, Bandiera Rossa sia stata scelta dai tedeschi per fare da capro espiatorio e da disincentivo all’attività resistenziale, soprattutto per la sua notevole permeabilità alle infiltrazioni e alle delazioni di cui fu facile bersaglio, in assenza di strette regole cospirative e anche di semplici misure sufficientemente cautelative».
Importanti pagine sono altresì dedicate da Ranzato al tema dell’«insurrezione mancata». Che non trova giustificazione nel fatto che le truppe alleate, sbarcate ad Anzio in gennaio, non avanzarono o non riuscirono ad avanzare immediatamente verso Roma. Tant’è che anche nei giorni conclusivi dell’occupazione tedesca, «sebbene allora quella travolgente avanzata ci fu», dai romani non venne dato «alcun contributo» alla cacciata dei nazisti da parte di una «Resistenza insorgente». Neppure la sinistra del Cln, «che nel suo insieme costituiva l’unico schieramento disponibile ad un’azione insurrezionale», aveva veramente una forza sufficiente «per scontrarsi efficacemente» con il nemico. Neanche con un nemico in ritirata come quello tedesco. La Resistenza – sostiene Ranzato – si fermò a «considerare» che i lutti e le distruzioni che quell’azione insurrezionale avrebbe potuto provocare «sarebbero stati in definitiva controproducenti per la stessa causa della Resistenza». Però poi, nel dopoguerra, ci si raccontò che la colpa degli ultimi giorni di inazione e di alcuni fallimenti resistenziali («o presunti tali») erano riconducibili a responsabilità degli Alleati. Ma non era questa la verità.
Tutto ciò fa parte di un problema più generale. Sono numerosi – scrive Ranzato – gli esempi, raccolti in diversi scritti di guerra e dopoguerra, di manifestazioni di «scontento della Resistenza italiana nei confronti degli Alleati accusati di non averla abbastanza appoggiata e rifornita», a causa di una certa ostilità verso i partigiani per via della preponderante influenza comunista all’interno del movimento resistenziale. In realtà, mette a punto Ranzato, ci sono diverse considerazioni che dovrebbero indurci a un «ridimensionamento della concretezza di quei fatti» e delle loro eventuali motivazioni. È un fatto che gli Alleati aiutarono e rifornirono generosamente la Resistenza del comunista Tito, il che rende evidente che non era la maggiore o minore presenza dei comunisti nei movimenti che si battevano contro nazisti e fascisti a far pendere un piatto o l’altro della bilancia angloamericana. Erano piuttosto le chance di successo che venivano attribuite a questo o quel gruppo resistenziale. E agli italiani – a differenza di francesi o jugoslavi – ne venivano riconosciute assai poche.
Un ultimo dettaglio: la stele di cui si è detto all’inizio, qualche tempo fa è stata rimossa per un intervento di ristrutturazione urbana e non è mai ricomparsa, nonostante quei lavori siano stati da tempo ultimati. A giudizio di Ranzato è, questa, l’ulteriore riprova di una «mancanza di riconoscenza» nei confronti degli Alleati, che ha come unica attenuante quella di non riguardare solo Roma e i romani, bensì «tutto un popolo che, per ricostruire un suo orgoglio di appartenenza nazionale dopo il disastro della guerra, ha preferito considerarsi come vintovincitore piuttosto che liberato». Ammesso che questa possa essere considerata un’attenuante.