Corriere della Sera, 4 febbraio 2019
Intervista a Tito Stagno
Tito Stagno, 50 anni fa lei fece sbarcare Neil Armstrong sulla Luna una manciata di secondi prima e Ruggero Orlando non gliela fece passare liscia...
«Fu una gag tra me e Ruggero. Dissi “ha toccato”, non “atterrato”. La navicella aveva antenne che servivano per valutare la pendenza: se era superiore ai 14 gradi non si poteva scendere. Comunque, peggio per lui, per farmi le pulci ha annunciato l’allunaggio con 10 secondi di ritardo. Nella pausa della diretta salii dal direttore Villy De Luca, c’era anche Ettore Bernabei e scoppiarono a ridere: “Bell’amico hai!”. Sapevano che quando Ruggero veniva a Roma, casa mia era a sua disposizione, dovevo invitare a cena i suoi amici e dava fondo alla scorta di Matheus. A fine cena lo caricavo sulla 500C, si metteva dietro con le gambe alzate e urlava: “Portami dalla mia bambina!”. La sua bambina l’aspettava con una bottiglia d’acqua minerale sul comodino. Quando l’Apollo 13 naufragò nello spazio, ci collegammo con New York. Silenzio totale, poi un usciere disse: “Il dottor Orlando sta preparando il pezzo”. Passai la linea a Londra, quindi tornai da lui: “Ruggero puoi cominciare”. “Cominciare cosa?”. “Il tuo servizio”. Dopo dieci interminabili secondi di silenzio, come se si risvegliasse: “Sta accadendo quello per cui Paolo VI sta pregando...”. Aveva in corpo litri di whisky, ma fece un racconto magistrale. Carlo Mazzarella, di ritorno dall’America, venne chiamato dal capo del personale: “È vero che questo Orlando beve?”. “Non mi risulta, però so per certo che Sandro Paternostro è astemio e, visti i risultati, sarebbe meglio che bevesse».
Lei e la Luna eravate una cosa sola, da cosa le veniva questa passione?
«Una sera, mentre era in onda il tg della notte, lo scampanellio della telescrivente segnalò una notizia importante: l’URSS aveva messo in orbita il primo satellite artificiale. Avevo appena letto un articolo sullo spazio, così condii le due righe con qualche informazione in più. Poi vennero Yuri Gagarin, Valentina Tereškova e la sfida di John F. Kennedy: “Entro il decennio manderemo degli americani sulla Luna...”. Alla Rai, quando capirono la notizia, dovetti tenermela ben stretta, la Luna. Ma non avevo concorrenza. Bisognava essere preparati per fare una telecronaca “sul tubo”. Sogno ancora di notte quando mi dicevano: non abbiamo le immagini. Prima di fare le 30 ore in diretta per lo sbarco, ero stato un mese negli Usa a visitare aziende e basi coinvolte. Alla General Electric mi misero nelle braccia di due segretarie da urlo, avevano il compito di coccolarmi e portarmi in ristoranti a lume di candela: “Aragosta alla King, sir?”. A Houston, invece, mensa con vassoio a un dollaro e mezzo. Pagavo io».
Come divenne il volto più noto della Rai?
«Il direttore di Radio Sardegna mi ascoltò in uno spettacolo teatrale e si convinse che avevo una bella voce. Cominciai leggendo il notiziario, poi qualche servizio e gli speciali della domenica. Non mi occupava molto e potevo continuare a studiare. Nel ’53 bandirono il concorso per telecronisti. Io pensavo di fare il medico, ma gli amici di Radio Sardegna insistettero: sei bravino, hai un bell’aspetto. Inoltrai la domanda. A Roma attraversai il Tevere, viale Carso, viale Mazzini, la fila cominciava sul ponte: 12 mila domande. Toccò a me che era sera. Un fattorino disse: “Tranquillo, finora tutti sgalfi”. Ma ce n’erano anche di bravi. Comunque passai il primo turno. La volata finale si teneva a Milano. Un collega mi consigliò: “Parla bene della Dc e loda le forze dell’ordine”. Per tutta risposta m’ingarbugliai subito. Mi chiesero del bandito Giuliano e risposi di non credere al rapporto dei carabinieri. Miracolo, mi assunsero lo stesso: io, Umberto Eco, Gianni Vattimo, Furio Colombo, Adriano De Zan e Gino Rancati. Sarà perché sapevo stare davanti alla telecamera, avendo già recitato».
A teatro?
«No, attore protagonista. A 13 anni, a Pola, feci un provino per un film che doveva raccontare la vita dei ragazzi marinai. Girammo tre mesi a Roma e tre sulle navi da guerra. Finirono il montaggio l’8 settembre ’43. Così il film, Marinai senza stelle, uscì solo nel ’47».
Si trovava a Pola quando arrivarono i tedeschi e poi i partigiani di Tito?
«Certo. Sono nato a Cagliari, poi ci siamo trasferiti a Sassari, quindi a Parma e, infine, a Pola. Papà era direttore della Confindustria locale. Frequentavo il ginnasio Giulio Cesare ed ero sempre a caccia di cibo. Un giorno le SS mi fermano e mi costrinsero a guardare, dalla dogana di Pola, i partigiani impiccati. Un giovanotto con cui avevo parlavo il giorno prima aveva il cervello che usciva dalla nuca. Stessa storia con gli jugoslavi: mentre cercavo farina mi chiesero i documenti. Temevo il peggio e invece cominciano a darmi pacche sulle spalle. Da non credersi: era perché mi chiamavo Tito. Mi fecero salire sul camion e mi diedero un passaggio fino a Isola d’Istria. Poco dopo arrestarono papà. Mamma mi mise su un barchino per Trieste e mi disse di raggiungere i nonni a Cagliari. Avevo 15 anni. Lei rimase lì con i miei 7 fratellini aspettando la liberazione di papà. A Trieste dormii in un centro profughi. Poi ci portarono a Udine, dove saltai su un treno merci che attraversò l’Italia fermandosi per giorni interi in stazioni di provincia. Non avevo nulla da mangiare. In Toscana un soldato mi diede un barattolo di fagioli. Li ingurgitai tutti e, in vita mia, non sono più stato così male. A Napoli m’intrufolai, senza fare la coda, su una nave militare diretta alla Maddalena. Arrivammo di sera ed ero talmente affamato che sentii da lontano il pesce sfrigolare nell’olio in una trattoria. L’indomani ero a Cagliari. Per fortuna papà venne liberato e dopo qualche mese la famiglia si ricongiunse in Sardegna, dove abbiamo fatto la fame fino a quando papà è stato assunto in Regione».
Lei raccontò i Grandi: com’erano?
«Un giorno mi spedirono da Giovanni XXIII. Mi chiese: “Sei sposato?”. “Sì, mia moglie è incinta”. “Che bello. Me la fai una promessa? Se è una bambina la chiami Brigida? Ha fatto tanto per far tornare i Papi a Roma e non se la ricorda più nessuno”. Promessa mantenuta. All’anagrafe l’impiegato mi fulmina: “Cosa ha fatto de male’sta piccina?”. Morto Giovanni XXIII feci il servizio sul Conclave. Nel corridoio che portava alla Cappella Sistina passavano i cardinali. Montini camminava con gli occhi rivolti al cielo. Giuro, ho esclamato: “Ecco il Papa!”. L’ho poi seguito nel viaggio a Bogotà, a 2.600 metri, dove, per una corsetta, quasi mi ricoveravano. Tutte le mattine, in barba all’altitudine, monsignor Marcinkus giocava per ore a pallacanestro senza il minimo mancamento. Seguii Kennedy a Napoli: sulla macchina scoperta, in piedi, guardava tutti negli occhi, magnetico, come se li conoscesse uno per uno. Ho fatto la cronaca del suo assassinio, non in diretta perché avevamo il satellite a disposizione solo in alcune ore. Feci invece la diretta dell’uccisione di Oswald. Poi Bob Kennedy, Martin Luther King. Anni senza tregua».
Facendo i calcoli, lei deve aver sposato la mamma di Brigida (e poi di Caterina) quand’era ancora bambina. Sbaglio?
«Avevo una fidanzata bella, alta, troppo alta: le arrivavo al petto. La sua famiglia m’invitò a San Benedetto del Tronto. A passeggio, mi teneva per mano e io mi vergognavo: sembravamo mamma e bambino. Una mattina m’inventai una chiamata da Roma. Fuggii come un ladro a Cagliari. Arrivato, mio fratello disse di aver conosciuto due ragazze di Parma, una di 16 e l’altra di 14 anni. Edda era la maggiore. Cominciammo a frequentarci, ma a fine estate tornò a Parma. Qualche mese dopo il padre, presidente di un consorzio agrario, mi chiese se il tg poteva parlare della fiera di macchine agricole di Soragna. Andai dal direttore, Vittorio Veltroni, e gli proposi il servizio. Lui mangiò la foglia: “Come si chiama?”, però sapeva che non ero un lavativo. Così la rividi e decisi di rompere gli indugi: “Quanto mi vuoi bene?”. E lei: “Se fossi ancora piccola direi come una casa”. Il mio futuro suocero cominciò a insospettirsi. Alla prima occasione disse: “Perché non sposa una bella romana?”. “Perché voglio sua figlia”. Gli andò il boccone di traverso: “Ma è una bambina!”. Forse mi stava alzando la palla: gli feci notare che sua moglie, lui, l’aveva sposata a 17 anni, quando con il Rex, lei americana, venne in viaggio con il padre in Italia».
Poi è passato allo sport. Come accadde ?
«Nel ’75 ci fu la riforma della Rai. È naturale che aspirassi alla direzione del tg. Ma bisognava promuovere un amico di Tanassi e del vicepresidente Orsello. Conoscevo Saragat, anche se non ero socialdemocratico. Una volta mi chiese se ero un compagno. Gli risposi: “Sì, di viaggio”. Gli spiegai cosa stava accadendo e lui si limitò a dirmi: “Tanasi e Orselo vanno presi con le mole”, parlava così, senza le doppie. Accettai allora di dirigere lo sport, la Domenica sportiva, dove portai la mia rivoluzione: auto di Formula 1 e campioni in studio, Gianni Brera, Omar Sivori... Ai mondiali d’Argentina del ’78 convinsi Gigi Riva a commentare le partite alle 6.30 di mattina. Aveva due occhi gonfi così. A Cagliari lo facevano allenare da solo di pomeriggio, perché non riusciva ad alzarsi prima di mezzogiorno. Nel 1994, a un anno dalla pensione e a metà campionato, mi chiamò il capo del personale. Credevo volesse farmi i complimenti perché avevo chiuso una grossa sponsorizzazione. Invece mi disse che l’azienda era in crisi: io e altre bandiere della tv di Stato dovevamo andarcene. La presi male, bastava farmi finire il campionato... Invece no, ci misero alla porta senza tanti complimenti».