la Repubblica, 4 febbraio 2019
La vita del Palpa
OTENUTO, Dal nostro inviato PESCARA Quest’uomo di 48 anni che di fronte al mare beve un succo di mirtillo e porta i capelli a zero, un tempo aveva la coda di cavallo, andava a Jack Daniel’s e si faceva di eroina. «Mai mezze misure, alla fine è stata una forza: è un eccesso anche smettere dall’oggi al domani». Tra una dose e l’altra giocava a tennis, il più grande campione mancato d’Italia, una vita che sembrerebbe esagerata pure se fosse fantasiosa, e invece è vera. Roberto Palpacelli schiacciava con il manico della racchetta quando le partite lo annoiavano. Fumava ai cambi di campo. Rifiutò la chiamata di Panatta e Bertolucci a un raduno della nazionale giovanile perché gli pareva una prigione. Si è fatto cacciare dalla scuola per maestri. Poteva bere 4 Campari e giocare 3 ore al sole. A 17 anni era categoria B1 e già sniffava. Nella droga ha scialacquato talento e montepremi. Una discesa all’inferno che lo portò a implorare suo padre di aiutarlo a farsi, perché da solo no, aveva un braccio rotto. Ha battuto Canè, Meneschincheri e Santopadre. Ha perso al 3° set con Ljubicic tre mesi prima di entrare in comunità. Oggi dà lezioni di tennis per 30 euro l’ora al circolo di fianco alla stazione di San Benedetto del Tronto, la città della perdizione e della risalita, dove sua madre lo raggiunge in ansia e gli porta le sigarette, se trova il telefono spento quando lo chiama. Tutto raccontato nel libro scritto con il giornalista Federico Ferrero, Il Palpa (Rizzoli): c’è già una casa di produzione che ha acquisito i diritti per trarne un film. Nel libro la città è San Maledetto. «A Pescara mi allenavo con Katia Piccolini, poi mio padre per fare carriera in banca ci trasferì lì. Fuori dal circolo stavano accampati i rotonderos. Picchiatori, spacciatori, bevitori. Ne ero attratto, la gente di strada è sincera. Avevo 15 anni, loro 25. Ho iniziato per scherzo con una dose, il guaio è che mi è piaciuta. Mi dava pace. Era un inganno. Mi sentivo appestato e vittima. A San Benedetto ho molti ricordi brutti, tutti i miei amici sono morti. Ora ci vado tre giorni a settimana, ma negli altri mi manca. Non ho qualcuno con cui parlare e mi tengo tutto dentro». Il tennis e l’eroina. Com’era possibile tenerli insieme? «Il fisico reggeva. Fino a 18 anni ho vissuto di nascosto. Non erano canne. Gli altri tennisti se ne accorgevano. Tenevo la roba nelle scarpe. Finché a un torneo, a Venezia, incontrai il presidente del circolo che gestiva una comunità. La sera prima della finale mi andai a fare con due ragazzi di Verona, occhi chiusi, barcollavo. Lui capì. È stata la mia fortuna. Nel ’99 il sindaco di Ascoli mi premiò nel giro di poche ore per il congedo dalla comunità e come finalista del torneo di Giulianova. Non poteva crederci». La follia più grande? «Uno sponsor mi fece firmare un contratto per 11 anni. Ne avevo 20. Tutto gratis. Mi allenai 8 ore al giorno per due mesi. Per i primi punti Atp mi mandarono in India, con 4mila dollari in tasca. Dissero che mi avrebbe fatto bene viaggiare da solo, ma io il vuoto della solitudine l’avevo sempre riempito con il buco. Non avevo mai visto un campo fatto con la merda mischiata alla segatura. Persi e cercai lo zucchero marrone. Trovavo l’eroina a mille lire al grammo, era così forte che al ritorno in Italia dovevo farmene 5 grammi per sentirla a malapena. Il contratto saltò. Eppure riuscivo ancora a giocare. A Piacenza mi sono fatto 22 Ceres e ho battuto un ragazzo di Bergamo». Cosa le è mancato? «Una guida vera. Il mio rimpianto è non aver lavorato con Riccardo Piatti. Sarebbe stato l’ideale. Ogni tanto ci sentiamo. Mi piacerebbe raggiungerlo a Bordighera, ma non voglio sradicare mio figlio dagli amici. Forse io ho sofferto proprio per il trauma del trasferimento. Avrei potuto prendere il posto di mio padre in banca. Ho un altro spirito. Mi dà emozione il campo. Torno distrutto ma sto bene. Mi sono risvegliato in overdose in certi ospedali senza sapere dove fossi. Il tennis mi ha salvato. È come un dialogo. Butti la palla di là, torna di qua, la rimandi di là. Mi ha tenuto in vita poter parlare con qualcuno attraverso una pallina». Di cosa si può aver paura adesso, dopo giorni così? «Dei mostri, dei fantasmi, come li vogliamo chiamare. Di una ricaduta. Ne ho avute due o tre con l’alcol dopo la comunità. Il fisico non reagirebbe più. Mi sveglio alle 2 di notte e mi chiudo in bagno a pensare, con la musica nelle cuffiette. Non fa sempre bene. Sento il peso di dover insegnare le cose che a me sono mancate. La costanza, la voglia di sacrificarsi, la tenacia di un Lorenzi o Errani. Quelli che hanno i genitori stronzi li taglio. Non sono un maestro, sono un allenatore». Come sono i suoi mostri? «Una volta ho visto la faccia del diavolo sopra il televisore. Quando mi feci di acido, il mio compagno di stanza aveva la testa staccata dal corpo. Smisi subito. Se mi avesse fatto schifo anche l’eroina, sarebbe stato meglio. Ho cercato molte volte di andare incontro a Cristo, farla finita, non mi ha voluto. Mi sono sentito in pace da una zia suora in convento, senza dirle niente. Non ho mai pregato per chiedere aiuto. Mi pare egoismo. Prego per ringraziare. Ho un lavoro per mantenere la famiglia. Se cadessi, darei un dispiacere a mia madre, le mie sorelle, la mia compagna che mi ha visto in overdose in bagno e me ne ha perdonate tante». Cos’è per lei la bellezza dopo tanto squallore? «Mio figlio. Ha 7 anni. Prima o poi dovrò parlargli di tutto questo. Non sa cos’è l’eroina. Gli piace studiare, disegna, fa karate. Me lo godo poco, esco di casa alle 4 e mezzo, alle 5 ho il treno, torno la sera. Quando posso prenderlo a scuola, rinasco. Ha un’altra luce. Non voglio fargli vedere i miei sbalzi di umore. Un tempo mostrare le fragilità era un pregio, oggi è un difetto». Lo guarda il tennis in tv? «Mi piace Fognini, vorrei conoscerlo. Ma preferisco le partite delle donne, c’è più tecnica. Non è giusta la disparità nel montepremi: fanno gli stessi sacrifici degli uomini, hanno le stesse spese. La migliore, Serena, qualche anno fa avrebbe battuto il numero 200 del mondo». Cosa dicono in famiglia della sua voglia di raccontarsi? «Sono felici. Mia madre ha domandato: non è che nel libro hai scritto proprio tutto? L’eroina mi ha fatto fallire delle opportunità. Ma non mi sono buttato. Ho gettato la carriera, non la vita. Guardami. È grazie al tennis se sono ancora qua».