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 2019  febbraio 03 Domenica calendario

Storia della censura letteraria

Adriano Prosperi, uno dei massimi studiosi dell’Inquisizione, scrisse diversi anni fa un bel saggio intitolato Censurare le favole a proposito dell’Indice dei libri proibiti uscito fuori in chiave controriformistica dal Concilio di Trento e poi diverse volte aggiornato. Interessava a Prosperi combattere un’idea dura a morire: che la letteratura avesse a patire dalla censura ecclesiastica «una barbarica aggressione, un saccheggio e una deliberata distruzione». Mentre, scrive ancora Prosperi, ci fu un intreccio, una collaborazione, tra chierici e laici: «Da Monsignor della Casa a Francesco Redi e oltre, la letteratura fu lasciata per lo più nelle mani dei letterati». Sul tema della censura tra Cinque e Seicento torna ora lo studio di Gigliola Fragnito che, rispondendo direttamente a Prosperi, dice che ci vorrebbero altre prove per attestare la collaborazione dei letterati laici, spesso invece spaventati e, come Gabriello Chiabrera, pronti a distruggere ogni pagina non grata. La questione è aperta. La Chiesa, prosegue poi la studiosa, aveva adottato una pedagogia fondata sulla persuasione piuttosto che sulla coercizione, ma, come aveva notato Paolo Prodi, i cattolici erano comunque trattati alla stregua di “minorenni perpetui”. Il denso saggio della Fragnito, ricco di citazioni e documenti, riflette la complessità di una situazione che si sviluppa lungo mezzo secolo almeno. La prima preoccupazione della Chiesa dopo la Riforma è sottrarre i testi sacri ad una libera lettura e dunque vengono vietate tutte le traduzioni nelle lingue d’uso, per non parlare delle riduzioni o riprese popolari di questo o quell’episodio biblico. Si arrivò a compilare una casistica che colpiva ogni licenza: anche quella di far satira attraverso facezie o simili.
Naturalmente l’eros era condannato e ne fece le spese Boccaccio e perfino Petrarca, reo di aver divinizzato Laura. Un certo Gabriele Barri non esitò a definire Petrarca «dux et magister spurcarum libidinum» in un parere inviato al cardinale Guglielmo Sirleto, dove criticava anche Dante, Ariosto e Sannazzaro. La Chiesa non amava la poesia e Gian Pietro Carafa, poi Paolo IV, se la prendeva con Paolo III che aveva creato cardinale un letterato come Pietro Bembo: non abbiamo bisogno in Collegio “di huomini che sappiano fare i sonetti”. Tasso, che già si tormentava per rispettare la Poetica di Aristotele nel comporre la sua Gerusalemme liberata dovette anche fare i conti con le pretese della censura ecclesiastica, nemica del paganesimo e delle feste più o meno licenziose, che invece si coltivavano nelle Corti.
Ariosto fu anch’esso circondato dai censori, ma ebbero scarsa fortuna. L’Orlando Furioso era un bestseller che contava oltre centocinquanta edizioni ed era diffusissimo.Proporre un’edizione purgata rischiava d’essere ridicolo e forse fu proprio per evitare il ridicolo, come scriveva Prosperi chiudendo il saggio già citato, che molte volontà censorie caddero nel vuoto.
Del resto elaborare gli indici dei libri da proibire o da correggere risultò una fatica improba e sempre superata dalle nuove uscite, perché il mercato del libro a stampa era ormai, entro i limiti di quel tempo, molto vivace. Così i censori periferici si lamentavano dei ritardi di Roma e intanto gli autori soffrivano un clima certo non benevolo nei confronti della creazione letteraria e guai se osavano, come fece il ligure Ansaldo Cebà, attingere alla materia biblica. Sottotraccia restavano i fogli volanti firmati da Pasquino, anch’essi oggetto di contrasto e caccia alle streghe. In attesa, ma ci vorranno due secoli, che arrivasse Belli a pareggiare i conti tra il popolo e la cattedra di Pietro.