Robinson, 3 febbraio 2019
I guai con la logica binaria del Like
Nei giorni scorsi Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo, ha postato su Facebook un sondaggio istantaneo sul Venezuela, chiedendo agli utenti: «tu da che parte stai?». Due le risposte possibili: «democrazia libera» (like) o «dittatura comunista» (reaction di stupore). Risultato: cinquemila voti per la dittatura, un migliaio scarsi per la democrazia. In gergo, Tajani è stato trollato: l’azione di disturbo ha rovesciato l’effetto dell’iniziativa. Sono i rischi a cui ci si espone cimentandosi con le dinamiche della comunicazione social senza padroneggiarle. Le cosiddette vanity metrics, cioè la misurazione dell’engagement ottenuto dai post, rappresentano una tentazione irresistibile: secondo diversi studi, ogni like ricevuto corrisponde a una scarica di dopamina nel nostro organismo. Nel 2016, l’Association for Psychological Science pubblicò negli Usa una ricerca focalizzata sui teenager, per i quali accumulare like su una foto di Instagram provoca lo stesso effetto psicofisico del mangiare cioccolata o vincere del denaro. E i protagonisti del dibattito pubblico, politici in primis, non sfuggono alla regola.
Come sintetizza il filosofo tedesco Byung- Chul Han, «Facebook è la chiesa digitale globale e il like è il suo amen». Siamo nell’era della “psicopolitica”, che trasforma la rete in un panopticon virtuale, nel quale ciascuno è incoraggiato all’interazione visibile e costante, a diventare parte di quello che viene definito “capitalismo del like”. Viviamo negli ego-network, secondo la definizione di Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Urbino: «Il like è uno strumento di visibilità dei tuoi contenuti: attirare consenso visibile garantisce, grazie agli algoritmi, una maggiore circolazione all’interno della tua cerchia, rende più evidente il messaggio, aggrega consenso».
Consenso è la parola magica. Il like è il corrispettivo digitale dell’applauso strappato in un comizio o talk show: parametro quantitativo che però nasce qualitativo (“mi piace”). Del resto, quando nel febbraio 2009 Facebook introdusse la funzione like (con un post firmato da Kathy Chan, tuttora condivisibile, che a oggi ha collezionato nemmeno 1.600 like) fu l’esito di un dibattito interno all’azienda che ruotava sul concetto di awesome (“stupendo”), con l’obiettivo di dare agli “amici” la possibilità di marcare in maniera positiva alcuni contenuti e consentire quindi alla piattaforma di renderli più visibili. Oggi, con due miliardi di utenti attivi, l’aspetto qualitativo è passato in secondo piano.
La politica del like è la deriva inevitabile. Tutto è superficiale, immediato, polarizzato, per rispondere non solo alla logica binaria dell’on/off digitale di cui il like è il simbolo più riconoscibile (anche se non c’è un tasto dislike e quindi il dissenso è meno incoraggiato del consenso); ma anche alle dinamiche di comunicazione non lineari della rete. «Oggi – sintetizza Dino Amenduni, stratega di comunicazione politica digitale – si fa una campagna elettorale al giorno. Ci si confronta con una quantità indefinita di argomenti, materiali, stimoli, con una velocità di decisione e tempo di esecuzione ridotti. E può capitare per esempio di riciclare foto stock usate contro la secchezza vaginale per promuovere il reddito di cittadinanza». Il politico contemporaneo teme l’horror vacui, il rischio di restare fuori da uno dei tanti trending topic della giornata. I contenuti sono studiati per suscitare reazioni istantanee, non lasciano spazio a distinguo e sfumature, appiattiscono il dibattito. Come se ne esce? Con il recupero del motto modernista less is more: «Oggi è consigliabile rallentare – dice Amenduni – sottrarsi alla dittatura dell’istantaneo. E poi i social possono essere usati come strumenti di mobilitazione attiva più che di consenso, come dimostra la lezione di Alexandria Ocasio-Cortez».
In tutto questo, c’è l’incognita del ruolo delle grandi piattaforme. Il fenomeno Trump, le fake news, i russi, Cambridge Analytica: la narrazione sulla presunta (e utopica?) neutralità tecnologica sta lasciando spazio alla distopia di un mondo in cui i social possono cambiare – in peggio – le sorti della democrazia, con la manipolazione più o meno consapevole del consenso. Tuttavia il vero obiettivo del like, per Facebook, è la possibilità di accumulare dati personali e attenzione degli utenti da vendere agli inserzionisti. Sostiene Antonio Garcia Martinez, autore di Chaos Monkeys ed ex manager di Fb, uno dei reietti (refusenik) della Silicon Valley: «Parafrasando quanto diceva Lord Palmerston delle grandi nazioni, aziende come Facebook non hanno mai avuto eterni alleati né perpetui nemici, ma semplicemente eterni e perpetui interessi».