Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2019
Tra Cleopatra e Giulio Cesare fu vero amore?
Cosa diciamo quando parliamo d’amore? Passione, tempesta, vento impetuoso, tormenti. E quando diciamo eros, ci riferiamo essenzialmente a pratiche materiali, più o meno soddisfacenti, a sfumature di vari colori, a figurine per adulti. Non è stato sempre così, ce lo insegnano proprio le culture che sono state madri della nostra, che però sconta cascami di romanticismo, di letteratura sdolcinata, di fotoromanzi, feuilleton e telenovelas.
Con la consueta gradevole scrittura ce lo spiega bene Eva Cantarella in una sorta di compendio degli amori greci e latini, intitolato Gli amori degli altri, proprio perché le idee di amore a Atene e a Roma sono diverse tra loro e lontanissime dalla nostra. La Grecia: da un lato eros che «squassa l’anima come vento che al monte sulle querce si abbatte», canta Saffo, ma anche eros come desiderio che dai corpi arriva alle menti e poi all’idea suprema di bello e bene, come si legge nel Simposio di Platone.
Dall’altra parte, philia, amore di amicizia, molto più sicuro e forte, come spiegherà Montaigne duemila anni dopo, ma prima delle rovine decadenti delle romanticherie: basta con le incertezze della passione, ben venga invece l’amore che è come un tepore costante e libero, il legame con gli amici. Eros, per i Greci, era una follia adeguata solo alla gioventù, sconveniente in un «vecchio» (cioè dopo i sessanta, e chiedo scusa ai giovanotti che hanno superato gagliardamente quell’età, viviamo tempi differenti), al quale era tolto anche il diritto di voto, quindi lo status di cittadino e vero uomo. Diverso il comportamento degli dei e di ninfe o demoni.
L’immortalità, quindi l’eterna giovinezza, dava a loro la possibilità di patire l’eros a piacimento, si trattasse del fiume Alfeo che desidera Aretusa, costringendola a trasformarsi in sorgente d’acqua dolce pur di non assecondarne le voglie. Oppure delle innumerevoli vittime di Zeus e della gelosia di sua moglie Hera. Chi fu trasformata in bianca giovenca, tormentata dal tafano mandato dalla signora, come Io, chi fu fecondata da un cigno, come Leda, che generò Elena e Clitennestra, chi divenne coppiere degli dei perché un’aquila (ed era sempre Zeus) lo rapì, innamorato della bella giovinezza di Ganimede. C’è poi la vicenda di Elena: rapita, sedotta dalle parole di Paride, annoiata dalla vita con Menelao.
Non sappiamo, non sapremo mai il motivo per cui la bellissima giovane lasciò Sparta per Troia. L’unica certezza era nel sicuro perdono di Menelao, che infatti si diede. Ma come puoi riprendere in casa un’adultera, motivo della morte di tanti greci, nobili e plebei, del tutto priva di senso di colpa? Ebbene, la bellezza di lei vinse su tutto, non era colpa sua, in caso lo si ipotecasse, la si dovrebbe considerare vittima della retorica di Paride, come scrisse Gorgia da Lentini. Poi si sa, per i Greci i belli non potevano che essere buoni, essendo il bello «vestibolo del bene»come scrisse Platone. Elena è però un’eccezione, un caso di donna che in fondo comanda la storia e vince. Le altre donne del mito, per quanto spesso dotate di caratteri forti e arti magiche, sono perdenti: Medea, Fedra, Penelope possono ben esclamare, con Euripide, «noi donne siamo la razza più sventurata».
Anche la philia, l’amore di amicizia, è sempre pensata come un legame tra maschi, come Achille e Patroclo, oppure un’intesa quasi commerciale tra marito e moglie, in vista della riuscita dell’impresa famigliare. Solo gli uomini partecipavano alla vita pubblica, ai simposi, alla vita dei ginnasi: la relazione tra loro poteva essere anche sessuale, ma solo secondo regole precise, per le quali l’uomo adulto, dopo i venti e prima dei sessant’anni di cui si diceva sopra, era parte attiva di un rapporto con giovani ai quali in cambio avrebbero donato saggezza e conoscenza della vita. Insomma, pederastia e non omosessualità, che tra adulti non era socialmente accettata, e con questo eliminiamo un altro pregiudizio sul mondo greco.
In quello romano, per le donne c’era il vantaggio di poter ereditare, ma in cambio il ruolo di esseri utili solo per la riproduzione era proprio sancito dalle leggi e dai costumi, una moglie fertile poteva essere ceduta dal marito, poi dall’uomo successivo, e poi magari tornava al primo. Il romano poi andava fiero della sua virilità, a partire dal ratto delle Sabine, vicenda quasi mitologica ma esemplare, fino alle decorazioni e scritte di Pompei, in questi uomini romani si riconosce il fare vanitoso del maschio che ancora oggi diciamo latino, ognuno di loro si riteneva almeno un latin lover.
Nel caso di Giulio Cesare, per esempio, sappiamo come fosse definito il più bello di tutti, a parte quel problemino della calvizie. Cesare non perdeva occasione per possedere donne e uomini, in una società dove l’omosessualità era attività normalmente praticata da uomini liberi verso servi e prigionieri, giovani e non giovani. Cesare amò davvero qualcuno o qualcuna? Cleopatra certo lo incantò, ma è difficile capire se fu vero amore o solo un’astuta tattica di sopravvivenza dell’ultima regina egizia. Con più che una punta di cinismo si chiude la carrellata di Eva Cantarella, che contribuisce a rendere ridicole le forme di nostalgia per mondi lontani molto più selvatici e misogini di quanto si sia vagheggiato e di cui ancora oggi capita di sentir parlare con astorica nostalgia.