Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2019
Solženicyn, tradire il governo o la patria?
Appare finalmente anche in Italia la versione integrale di uno dei più grandi romanzi del secondo 900: Nel primo cerchio di Aleksandr Solženicyn. Esce a 40 anni dall’edizione russa, ma possiamo consolarci: se in francese fu tradotta in quello stesso ’78, e in tedesco 7 anni dopo, in inglese è uscita soltanto nel 2009. Del resto, come osservava lo scrittore dissidente Arkadij Belinkov, i libri si scelgono per affinità elettiva, e in Occidente, salvo eccezioni, il tema del lager sovietico «non suscita affinità elettive, è puro esotismo – e l’esotismo non lo prende sul serio nessuno».
L’idea di scrivere Nel primo cerchio nacque in Solženicyn quando scontava la sua condanna a Marfino (oggi periferia nord-orientale di Mosca), nell’ex seminario, poi colonia per i figli di agenti del Ministero degli affari interni (Mvd), diventato nel 1948 «prigione speciale n. 16» del Ministero per la Sicurezza di Stato (Mgb), ovvero una šaraška nel gergo degli zek, i detenuti: tecnici e scienziati, obbligati a lavorare a progetti segreti, in condizioni di vita quasi accettabili, rispetto ai lager sovietici – «sempre all’inferno», ma «nel cerchio più alto, il migliore: nel limbo». A Marfino – ritratta dal vero nel romanzo – Solženicyn arrivò due anni dopo l’arresto; vi rimase sino al maggio 1950, quando (come il Gleb Neržin del romanzo, dai tratti largamente autobiografici) decise di smettere di collaborare a ricerche che potenziavano gli strumenti repressivi a disposizione dello stato-carceriere, e finì a Ekibastuz in un campo di lavori comuni. Iniziò la stesura di Nel primo cerchio nel settembre 1955 a Kok-Terek (Kazakhstan), dove da due anni era costretto al confino. Prima di portarne a termine nel 1968 la settima e definitiva redazione, in 13 anni scriverà tutte le sue opere maggiori – migliaia di pagine destinate a cambiare la storia (non solo letteraria) della Russia: Una giornata di Ivan Denisovi?, La casa di Matriona (recentemente riproposti da Einaudi in una nuova traduzione), altri racconti, un secondo romanzo, Reparto cancro, e il suo capolavoro, Arcipelago Gulag (1964-1968; ripubblicato negli Oscar Mondadori nel 2017).
Le vicende della composizione e pubblicazione di Nel primo cerchio sono caratteristiche dell’epoca sovietica: allora le opere non politicamente corrette attendevano anni, decenni, prima di essere conosciute, e apparivano in edizioni non autorizzate dall’autore, censurate, autocensurate, insomma affioravano, quando lo facevano, «senza le penne», come scrive Solženicyn nella prima pagina del suo libro, in versioni “alleggerite”, spesso sfigurate. Le tre prime redazioni, in 96 capitoli, vennero portate a termine nel 1958 (non si sono conservate: le distrusse l’autore, allora in clandestinità, perché non cadessero nelle mani sbagliate), ma al romanzo Solženicyn continuò a lavorare fino al 1962. Poi, quando per breve tempo sembrò possibile una pubblicazione in «Novyj mir», la rivista dove era apparso Ivan Denisovi?, eliminò le parti che la censura non avrebbe mai accettato, accorciò i dialoghi, deformò il nome di Marfino in Mavrino, modificò la vicenda del tradimento di Stato che fa da cornice alla storia. Nella redazione originale, così come in quella definitiva, oggi coraggiosamente pubblicata in italiano da Voland, la storia si apre con la telefonata dell’inquieto diplomatico Innokentij Volodin. Il giovane rivela all’ambasciata americana a Mosca che un agente sovietico a New York sta per ricevere i dati per fabbricare la bomba atomica. Nell’edizione autocensurata (in 87 capitoli) cercava invece di avvisare un connazionale, un medico, perché non consegnasse il farmaco promesso ai colleghi francesi. Nell’una come nell’altra versione, la telefonata non sfugge ai servizi segreti (il capitolo, amaramente ironico, che descrive gli agenti addetti alle intercettazioni manca nella versione autocensurata), e il compito di riconoscere la voce del traditore viene affidato agli zek della šaraškadi Marfino. Non tutti si presteranno all’opera: «è già abbastanza che abbiano messo dentro noi…». Come gli antichi filosofi del limbo dantesco dal quale il romanzo prende il titolo, anche gli zek della šaraška riflettono, e la loro paradossale libertà di pensiero (un uomo a cui hai tolto tutto è un uomo libero) si contrappone alla paura e al sospetto che imprigionano le menti di quanti, nel mondo «libero», hanno fatto carriera nelle alte sfere sovietiche, fino a colui che veglia ogni notte «dietro una dozzina di mura fortificate»: il vecchio Stalin, malato e insonne, ritratto – in un capitolo memorabile – nella sua enorme stanza da letto priva di finestre, dove la notte riceve i tremebondi sottoposti, e dove rilegge la propria biografia.
Smascherato in capo a tre giorni (e 950 pagine) Volodin finirà alla Lubjanka, l’edificio simbolo della repressione di Stato, davanti al quale era passato già nelle primissime pagine del libro, mentre si avviava verso il telefono pubblico dal quale avrebbe tradito la patria («Dove sono i limiti del patriottismo? perché l’amor di patria dovrebbe estendersi ad ogni sua forma di governo?» – la citazione da Herzen, come il personaggio che la pronuncia, Avenir, zio di Volodin, mancano nella versione in 87 capitoli).
Alla redazione definitiva Solženicyn lavorò nel 1968, quando non aveva più nulla da perdere, dopo l’avvenuta consegna, in Occidente, del microfilm di Arcipelago Gulag, e dopo l’uscita a Zurigo della versione ridotta che «Novyj mir» non aveva pubblicato, subito tradotta anche in italiano (da Mondadori). Il romanzo non incontrò allora il favore della critica in Italia. A parziale giustificazione di chi non colse, al di là della dirompente forza politica, la grandezza di Solženicyn artista, Nicola Chiaromonte nel 1970 faceva notare che traduzioni «così mediocri … forse scusano in parte la disattenzione di critici e letterati». Anche oggi sarebbe stata d’aiuto una traduzione amorevolmente accurata.