il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2019
Lunga intervista a Nino Frassica
Sul citofono del palazzo dove vive c’è scritto “Frassica”. Semplice. Diretto. Apre la porta di casa ed è avvolto da una tuta, cammina in ciabatte senza calzini e da perfetto ospite ha apparecchiato il tavolino davanti ai divani con bevande e salatini. “Vuole un caffè?” No, grazie. “Ne è sicuro?”. Sì, grazie.
A 68 anni ha mantenuto intatto un equilibrio raro tra fanciullezza ed età adulta, fama e origini, perseveranza e casualità: è consapevole delle proprie qualità (“Secondo Arbore sono scientifico”), ama ancora stupirsi (“Se alle prove di Adrian so che arriva Celentano, mi piazzo lì e godo dello spettacolo”); quando può torna in Sicilia perché “adoro parlare in dialetto, e rivedere i miei amici”, e non ha ancora la patente.
Scientifico, cosa vuol dire?
Con Renzo ogni tanto ci vediamo, però ci sentiamo spesso e commentiamo i programmi televisivi: secondo lui sono scientifico perché bravo nel concretizzare il materiale astratto; piazzo la cornice intorno al quadro…
Istinto o necessità?
Tutti e due: è diventata un’esigenza per via del mio stile comico, basato sull’improvvisazione, il nonsense, il surreale: per tenere insieme tutto, è obbligatorio mantenere dei confini, togliere le parti inutili, arrivare alla sostanza.
Setaccia l’oro…
Da sempre, fin dall’esordio a Quelli della notte, quando Renzo e Ugo Porcelli non sapevano come inserirmi, e solo dopo avermi studiato bene mi dissero: “Con questi baffoni saresti perfetto come frate: te la senti?”.
E lei?
Avrei interpretato qualunque ruolo, pure l’infermiere, il pompiere, l’idraulico. Che mi fregava? Per preparare quella parte comprai una telecamera costosissima, cinque milioni di lire, allora una follia, la piazzai su un trespolo per registrare i vari tentativi; poi studiavo la cassetta e selezionavo le parti migliori.
Scientifico davvero.
Davo ordine al delirio. Comunque nella prima puntata di Quelli della notte ho detto solo: “Sono frate Antonino da Scasazza, provincia di Agrigento, Trapani. Sono qui per il concorso ‘Cuore d’oro’, dedicato ai buoni comportamenti”.
Basta?
Sì, però nella mia testa c’era già il percorso per arrivare alla 35esima puntata, e quella semplice frase era la cornice al personaggio.
Agitato per il debutto?
Insomma, per fortuna c’era Maurizio Ferrini che stava molto peggio di me, guardavo lui e in confronto mi sentivo disinvolto.
Che combinava?
A un certo punto mi è preso un colpo: sentivo tremare il salottino, ho pure pensato al terremoto, invece era lui agitatissimo. La questione è una: eravamo giovani, poca esperienza, e impreparati.
Lanciati in tv.
Con Renzo avevamo organizzato un piccolo allenamento, del cazzeggio a ruota libera, siparietti eccezionali che andavano ripresi; oggi sarebbero delle chicche meravigliose. E invece niente, tutto perso.
Avrà le cassette di lei che prova il ruolo da frate.
Neanche una, ed è uno dei miei rammarichi.
Quanto duravano le vostre prove?
Ore e ore: il 70 per cento del tempo parlavamo di altro, era come una lenta preparazione, riscaldavamo le menti, poi ci lanciavamo sul presunto lavoro.
Presunto.
Perché ci divertivamo come matti, e mangiavamo in maniera scriteriata. Per questo mi dispiace non avere alcuna testimonianza di quei momenti.
È stupito della sua carriera così lunga?
Non ci avrei creduto neanche io, e in questo mi sento realizzato; al contrario sono in credito con il cinema, lì non è andata meravigliosamente.
Come mai?
Ci sarebbero voluti due Frassica: uno per la tv, l’altro per il grande schermo; non riesco a occuparmi di due progetti importanti contemporaneamente, e quando mi chiamano per un film, mi preoccupo se ho troppe pose.
Meglio il cammeo.
Lì sono bravissimo.
Con quale regista le piacerebbe lavorare?
Pupi Avati, Marco Tullio Giordana e Carlo Verdone. Anzi, per Verdone pagherei.
Lo ha informato di questa predilezione?
E come posso? Come si fa?
Non si è mai proposto?
In generale qualche volta sì, è parte del nostro lavoro, sono pubbliche relazioni; se uno resta a casa non ti chiamerà mai nessuno, quindi a qualche porta tocca bussare. A quella di Carlo mai, eppure per me è il miglior attore italiano, ha una capacità incredibile di piazzare la verità nella recitazione. In lui credi.
E sulla regia, no?
Ne capisco di meno, non me ne intendo, mentre sulla recitazione so giudicare.
La sua dote principale?
Sono spiritoso di natura, ho il senso del cagacazzismo, se punto un tema, un tema qualunque, non lo mollo, devo scherzarci sopra.
Da sempre.
Da ragazzo mi sedevo al bar del paese, mi piazzavo lì per delle ore, e amavo rompere le palle a chi entrava, amavo ridere e scatenare risate, e questo non lo impari, nasce da dentro, è Dna, poi per renderlo professione sei costretto a riportare tutto in una chiave scientifica.
Fondamentale.
Ho un fratello più spiritoso di me.
Ma…
Non si è strutturato, non ha cercato di capire i meccanismi.
Lei è un lavoratore.
Mi piace, e in realtà non mi fermo mai, poi ho una passione totale per la radio, è in quel contenitore che do il meglio: lì mi sento più libero, senza padrone.
Da Fabio Fazio si sente sotto padrone?
Zero. Lui non vuole sapere nulla, si fida, però ci sono dei tempi tecnici, non si possono toccare certe situazioni, mentre con la radio vado in totale libertà.
Fazio è per antonomasia “il buonismo”. Lo è?
È un uomo che ama e odia in maniera netta: se gli piaci è per sempre, altrimenti con lui scatta il “mai”.
Niente grigi.
Basta controllare la lista degli ospiti in trasmissione, oppure chi è andato una volta e non è più tornato. A Fabio gli ospiti devono piacere anche umanamente.
Lei ora è impegnato anche in “Adrian”…
Celentano è un grande creativo, è uno imprevedibile e volubile, cambia in continuazione lo spettacolo, e l’aspetto incredibile è che a tutti noi piace sempre l’ultima versione.
Se lo può permettere.
Eh, solo lui, perché ha la forza di ottenere carta bianca sui progetti; con nessun altro ho mai visto una situazione del genere.
Volubile, diceva.
Me l’avevano spiegato, ma dal vivo è uno spettacolo: sto lì e mi piace vederlo, sono felice quando ci sono le prove, resto anche quando non mi tocca, ma desidero godermi ogni secondo, come uno spettatore, ma privilegiatissimo.
Con chi altro ha provato questa sensazione?
Con Renato Carosone: una sera sono andato a casa sua, e lui si è seduto al pianoforte; oppure anni dopo durante la trasmissione Doc di Renzo: registrava in via Teulada (sede della Rai), e io lo raggiungevo, mi piazzavo in disparte, e mi beavo di personaggi come Pino Daniele o James Brown.
Si stupisce.
È sbagliato derubricare il tutto al “già visto” o al “è niente di che”. Un cavolo. Certi mostri li riconosco e davanti a loro sono un fan, esattamente come quando esce un film di Verdone: lì corro al cinema e lo viviseziono. Lo studio. Cerco di capire.
Come mai ha i capelli bianchi?
Per girare Uno di famiglia ho deciso di cambiare il look, volevo differenziarmi dagli altri ruoli, così li ho tagliati e lasciati naturali. E mi piacciono. Mentre Don Matteo mi costringe a un unico look, con i baffi scuri.
Terence Hill…
Ascetico e assomiglia tantissimo al personaggio di Don Matteo: è uno un po’ schivo, rifiuta la mondanità e tutto quello che è rumoroso; dice di no alle pubblicità e anche all’anteprima del suo film, se l’è svignata appena ha potuto. Una volta, durante le riprese della fiction, la troupe ha organizzato una festa e quando lo ha invitato la sua risposta è stata: “Va bene, ma iniziamo alle sette di sera”. Capito? Alle sette…
Si concede poco.
Davvero, è fantastico; e poi è un vero divo internazionale, mentre noi siamo appena dei divetti italiani: quando giriamo a Gubbio o a Spoleto, gli stranieri lo riconoscono, a noi no.
L’arrivo della fama…
Ai tempi di Quelli della notte, un giorno si avvicina un tizio, si ferma, mi guarda e parla in arabo: mi aveva scambiato per un connazionale, o almeno credo; poi passate le puntate il pubblico ha iniziato a riconoscermi, solo che non sapevano il mio nome, e mi urlavano solo “frate, frate”, al massimo aggiungevano “Scasazza”.
Soluzione?
Mi sono quasi preoccupato, temevo di finire il programma senza che nessuno avesse impresso il mio nome, allora dopo un po’, timidamente, ho piazzato l’auto-assist durante lo sketch: “Io, padre Frassica…”. Un piccolo trucco per farmi pubblicità.
Aveva il dubbio su cosa fare da grande…
All’epoca del programma avevo 34 anni e una lunga esperienza di spettacoli e radio private, indietro non sarei mai tornato, al massimo non sapevo il livello della carriera.
È scaramantico?
In assoluto no, ma se non costa niente perché evitare certe attenzioni?
Cosa legge?
Stefano Benni in primis, poi Maurizio Milani, Gene Gnocchi e quelli scritti da me. (Ci pensa). Uno dei complimenti che ho più amato nella vita è arrivato al funerale di Boncompagni, e grazie a una signora: “Gianni mi ha regalato il suo libro, gli piaceva tantissimo”. Un onore.
Com’era la coppia Boncompagni-Arbore?
Fantastici. Avevano una capacità introvabile di individuare i talenti, e soprattutto di estrarre il meglio da loro: Marenco o Bracardi sono imprendibili, in assoluto non si sa mai dove vanno a finire, mentre Gianni e Renzo li inquadravano; con loro il talk diventava all’improvviso sketch.
I classici della letteratura li legge?
No, al massimo le biografie.
Ha mantenuto l’inflessione siciliana.
Mi piace, solo che a Roma non so con chi parlare in dialetto; quando torno a casa vado subito al bar per ritrovare i miei coetanei, oramai dei vecchi, e lì affondo nelle radici.
La trattano da star?
Un po’, anche se qualcuno, a volte, mi ha criticato; il bello però, è che possono solo loro concedersi il dubbio, se un estraneo si permette di esprimere qualcosa contro di me, sono mazzate.
La difendono.
C’è il senso della tribù, lo stesso che avvertivo da ragazzo per le squadre di calcio.
Giocava a pallone?
Io? Nooo, mai.
Niente sport?
Neanche uno, appena delle partite a pallavolo, e giusto perché le squadre erano miste: c’erano le donne.
Questa settimana parte Sanremo…
Lì il problema è il pubblico, con i comici sono micidiali: stanno con gli occhi addosso pronti alla critica.
Non sono generosi.
Per niente, hanno un atteggiamento disincantato, non si siedono rilassati, vogliono portare al Festival il loro protagonismo. Se poi ci sono di mezzo delle polemiche politiche, è la fine.
La politica non la tocca mai.
La mia comicità è surreale, la satira non è il mio passo, forse non sarei nemmeno in grado, in quel campo sei costretto a restare sempre informato, a non perdere mai di vista l’attualità; oggi non ho letto i giornali e non ho acceso la televisione. E capita spesso.
Si dedica ad altro.
Vedo film, scrivo molto, penso agli spettacoli. Mi isolo.
Il suo miglior consiglio?
Specializzarsi. E insistere.
Sempre.
No, da sempre. Nel 1973 dalle mie parti c’era una discoteca e per alcune settimane ho chiesto ai miei amici di andarci; entravano e poco dopo si avvicinavano al proprietario o alla cassa: “Bello il posto, organizzate mai serate di cabaret?”. Ogni volta rispondevano “mi dispiace, no”. Un paio di mesi dopo mi sono presentato: “Buongiorno mi chiamo Nino Frassica, per caso vi interessa uno spettacolo di cabaret”.
E loro?
“Effettivamente ce lo chiedono spesso”. Subito ingaggiato. E non mi sono più fermato.
(Nihil difficile volenti)