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 2019  febbraio 03 Domenica calendario

Intervista a Silvano Tagliagambe

La cosa che mi sorprende di Silvano Tagliagambe – prestigioso allievo di Ludovico Geymonat – è il modo in cui fa convivere scienza e teologia. Sembra un prestigiatore: qua il cilindro e là il coniglio. Eppure mentre assisto a una sua illusionistica lezione su Pavel Florenskij, così piena di dottrina e passione, penso all’esistenza di quegli uomini unici in cui la vita e le forme sembrano il risultato di un qualcosa che si approssima alla grazia. Ciò che mi sorprende è quando dice: non avevo idea di che cosa fosse la grandezza, in qualunque senso la si voglia intendere, fino a quando non ho incontrato Florenskij. Vi parrà eccessivo? Non lo è, ve lo assicuro, perché ci sono nella vita quei rari momenti in cui l’altro riflette la profondità che non sospettavamo, neppure lontanamente, di poter percepire. Credetemi. Certi incontri hanno proprio questa funzione. Tagliagambe vive da 45 anni in Sardegna. Lui che è nato a Legnano e ha studiato a Milano e ha insegnato a Pisa, dice di aver fatto una scelta di vita: «Mi sono innamorato di un’allieva e dopo la laurea ci siamo sposati. Anni sul “continente” poi la scelta dell’isola che non è solo un’isola ma un modo di sentire il mondo e la vita».

Tu sei stato allievo di Geymonat, grande logico e filosofo della scienza, convinto comunista, quando il comunismo in Italia voleva ancora dire qualcosa, ma anche segnare limiti e incomprensioni. Come ti sei imbattuto in lui?
«Negli ultimi anni del liceo al Parini di Milano ero incerto se iscrivermi a fisica o a filosofia. Il mio professore di filosofia mi consigliò di seguire alla Statale qualche lezione di filosofia della scienza per cominciare a orientarmi. Fu così che incrociai Geymonat».
Ti sei laureato con lui?
«Sì, nel 1968 con una tesi di meccanica quantistica. In un capitolo esposi le obiezioni dei fisici ed epistemologi russi all’interpretazione della scuola di Copenaghen di Heisenberg e Bohr. La cosa piacque particolarmente a Geymonat».
Forse uno dei pochi che si potesse eccitare sull’argomento.
«Lo vidi accarezzare quelle pagine senza zelo accademico, ma come se improvvisamente fossi diventato un suo piccolo prolungamento. Mi propose per una borsa di studio in Unione Sovietica».
E tu andasti?
«Andai, avevo 24 anni. Ero fresco di vita militare. Nel settembre del 1968 arrivai all’università di Mosca. Avevo ignorato la contestazione studentesca perché sotto le armi. Passai dalle piccole caserme del bellunese a quella decisamente più grande di Mosca».
Che città vedesti?
«Misteriosa e affascinante per tanti aspetti ma con un clima di chiusura e controllo che al cospetto i 18 mesi di disciplina militare mi sembravano acqua fresca».
Dove alloggiavi?
«Come tutti i borsisti nella casa dello studente alle Colline Lenin. Non era poi così male. Il problema degli alloggi a Mosca, e non solo lì, era molto complicato. Vivevo in un piccolo blocco: in una delle due camere comunicanti, ciascuna riservata a un ospite. Doccia e sanitari in comune. Il grado di intimità non era il massimo. Ma ci si poteva adattare. Senza traumi».
E il tuo studio sulla meccanica quantistica?
«Be’, mi aprì alcune porte. Bisognava solo avere il coraggio e la tenacia di discuterne con qualche grande fisico. Per farlo andai a lezione di russo. Oltre a me c’erano tre simpatici cubani. Ero motivato e deciso a non perdere tempo. Mi indirizzarono verso le lezioni di Terletskij. Uno studioso molto critico con chi appoggiava la meccanica quantistica».
Era la posizione ufficiale nell’Accademia delle scienze?
«Certo, quella dominante. Ma scoprii che alcuni grandi fisici parteggiavano
per Heisenberg e Bohr».
Chi?
«Uno di cui seguii le lezioni era Vladimir Fok. Insegnava a Leningrado, ma capitava spesso a Mosca. Una testa mirabile».
A parte i fisici chi ti incuriosiva?
«Mi parlarono tantissimo di Aleksandr Lurija. Le sue ricerche nel campo delle neuroscienze erano molto avanzate. Andai a trovarlo, nella casa dove viveva, a Mosca. Mi venne incontro un uomo dal portamento aristocratico. Ci accomodammo in una stanza piena di libri. Sedette su una poltrona con accanto un possente cane. Parlava con voce decisa e contemporaneamente accarezzava l’animale. Con pochi tratti disegnò un ritratto molto affascinante delle neuroscienze in Russia. Emanava una grande tranquillità. Il contrario dell’impressione che mi fece Lotman».
Lotman era un linguista e soprattutto un semiologo.
«Prima di tutto era un personaggio incredibile: piccolo, con degli enormi baffoni, sprizzava energia da ogni dove. Era impressionante la vastità delle sue conoscenze. Mi parlò dei seminari di semiologia che teneva a Tartu e poi di Kolmogorov, secondo lui il più grande matematico del ventesimo secolo. E fu sempre Lotman che mi parlò di Pavel Florenskij. Non sapevo chi fosse. Ma avvertii nelle sue parole una spiccata ammirazione. Mi spinse a leggere questo grande filosofo, teologo e matematico».
Figura davvero unica, intendo Florenskij. A lungo ignorato, la sua opera principale – La colonna e il fondamento della verità – fu da noi pubblicata da Rusconi.
«Bisogna dare atto a quella casa editrice e soprattutto a Elémire Zolla di avere introdotto con straordinario intuito un filosofo allora del tutto sconosciuto in Italia».
Mi stupisce questo riconoscimento a Zolla, molto inviso ai marxisti degli anni Settanta.
«Non è per me un apprezzamento tardivo. Del resto, non fu soltanto Florenskij l’unica sua scelta editoriale felice. Autori come Marius Schneider, Guido Ceronetti, Simone Weil, Eric Voegelin. Giorgio de Santillana o anche Tolkien, del quale aveva imposto Il signore degli anelli, erano totalmente estranei all’egemonia culturale del marxismo».
Florenskij finì in un gulag e poi fucilato nel 1937. Fece in tempo a spedire delle lettere ai suoi familiari e amici. Tu cosa hai provato quando le hai lette?
«Angoscia e ammirazione; la tenerezza nei confronti dei figli, il desiderio di lasciar loro un’eredità spirituale e morale di grande spessore; la serenità e la lucidità con la quale si rivolgeva ai suoi cari nelle tremende condizioni di vita. Ancora oggi tutto questo è per me un insegnamento e un esempio ai quali devo molto».
Per un filosofo della scienza che cos’è la fede?
«Non so cosa sia, astrattamente, per i filosofi della scienza: per me è prima di tutto una forma di amore. Perché, come scrive Florenskij: fra coloro che si amano si squarcia la cortina dell’egoismo e della pretesa di autosufficienza».
Vivi la fede in cosa?
«Credo profondamente nell’integrità della persona, nel duplice significato della parola: nel senso di un intero, risultato dell’unione di materia e psiche, di corpo e spirito; dell’esigenza di aderire ai valori non solo proclamati ed esibiti a parole, ma praticati nella vita quotidiana e insegnati attraverso l’esempio».
Dostoevskij è stato forse il primo scrittore di cultura russa a vedere complicarsi l’immagine integra dell’uomo.
«Dì pure che rimette in discussione alcuni processi encefalici di cui erano assertori certi neurofisiologi. Ci dice che l’uomo non è una finestra aperta sul mondo. Delitto e Castigo ma soprattutto Memorie del sottosuolo sono delle magnifiche riflessioni sul pensiero inconscio. Non è un caso che Nietzsche veda in lui il vero scopritore dell’inconscio. Freud gli darà nobiltà teorica».
A proposito di psicoanalisi hai accostato Jung alla meccanica quantistica. Un fisico sarebbe sorpreso. Allo stesso modo di uno junghiano.
«Perché mai? C’è più di una ragione che rende plausibile l’accostamento. A cominciare dallo scambio di lettere che Jung ebbe con Pauli, il grande fisico che fu tra gli artefici della rivoluzione in ambito quantistico. Era un uomo di lucidità e chiarezza estreme».
Fu Jung a entrare in contatto con Pauli?
«Fu Pauli a rivolgersi a Jung. Grandissimo scienziato ma anche uomo psichicamente fragile. Aveva sposato una ballerina. Frequentava posti equivoci. Spesso finiva coinvolto in qualche rissa. Decise perciò di entrare in analisi. Jung, al di là della terapia, cominciò a interrogarlo sul suo lavoro. Capì che nella meccanica quantistica c’erano degli aspetti che lo affascinavano. Si trovò di fronte a una teoria scientifica nella quale la realtà è profondamente e inestricabilmente legata alla possibilità. In parole più semplici: la teoria quantistica non prevedeva più di determinare i fenomeni stessi, ma soltanto la loro possibilità, ossia la probabilità che succeda qualcosa».
Viene meno quello che nella meccanica classica è il rapporto causa ed effetto?
«Più o meno è così. Rispetto alla fisica classica fondata sull’ontologia dei fenomeni, la fisica quantistica si fonda sull’ontologia delle relazioni».
E questo cosa comporta?
«Per quel che riguarda la meccanica quantistica, che il mondo della possibilità si intreccia col mondo della realtà, con il qui e ora».
E cosa c’entra Jung?
«Per Jung l’inconscio è il mondo del possibile che influenza la coscienza, cioè il mondo del reale. Grazie al lungo dialogo con Pauli, scrissero anche un libro insieme, Jung trasferì alcune intuizioni della meccanica quantistica alla relazione tra l’Io e il Sé».
Hai mai praticato analisi?
«No, mai. Ho un fratello, Fulvio, che è psicoanalista freudiano e credo che la sua attività abbia riempito del tutto ed esaurito il contributo della famiglia Tagliagambe all’analisi».
Sono più forti gli interessi scientifici o quelli religiosi?
«Sono molto attratto dal rapporto visibile-invisibile e questo vale tanto per la scienza quanto per la religione. Per molto tempo la logica ha equiparato l’illusione alla falsa credenza. I più avanzati studi odierni, occupandosi del rapporto tra logica e linguaggio quotidiano, hanno smentito una tale equiparazione».
Facci capire meglio.
«Nell’Otello di Shakespeare la proposizione che Otello credeva falsamente che Desdemona lo tradisse è vera. Ma se dico che Otello si illudeva che Desdemona lo tradisse, voglio significare non solo che tradiva ma che egli desiderava che lo tradisse. Le due proposizioni hanno un valore di verità diverso e non possono essere equiparate».
L’illusione ha un valore superiore alla falsa credenza?
«La prima è molto più ricca e conoscitivamente più feconda dell’altra».
Florenskij ha mirabilmente spiegato cosa sia un’icona. Una parola da tempo diventata di moda. Che sta a significare il successo di un personaggio pubblico. Le parole si possono stravolgere o mutare di significato. Ma conservano qualche tratto comune?
«No, le icone alle quali ci riferiamo oggi sono immagini vuote, pure finzioni, apparenze gonfiate dalla propaganda e da una retorica sempre più insulsa e insopportabile. Niente a che vedere con l’icona di cui parla Florenskij: vera e propria “teologia in immagine”, “finestra sull’assoluto”, che va ascoltata perché vi si manifesti l’infinito e che va quindi intesa come una rivelazione, grazie alla quale possiamo intraprendere un’ascesa verso l’invisibile, arricchendo così il nostro universo interiore».
Hai dedicato un libro a Tempo e sincronicità (Mimesis). Il presente sembra essere il solo verbo che conosciamo.
«Si vive sempre più nella catastrofe dell’immediatezza, cioè in un tempo senza memoria e progetto e dunque privo di spessore e prospettiva. Ed è un peccato perché il tempo non è solo lo svolgersi degli eventi, ma anche la capacità di dar loro un significato».
Forse il significato più recondito, come pensava lo stesso Jung, è nel senso da attribuire alla morte. Per te cosa rappresenta? La temi?
«Mentirei se dicessi di non temerla, ma cerco di smorzare questa paura pensando che di noi continua a vivere ciò che riusciamo a lasciare in eredità, in termini di affetti, sentimenti, ideali e anche pensieri e conoscenza, a chi rimane dopo di noi. Per questo cerco di rendere il più possibile produttiva questa mia terza età».
Si associa la terza età a una vecchiaia in cui la saggezza prevalga sull’intemperanza. È così per te?
«Quella saggezza cui alludi è rara da realizzare. Di solito l’attri-buiamo alla figura del maestro. Geymonat, che per me lo è stato, mi ha lasciato una bellissima e commovente descrizione: “Per quanto un individuo si ribelli contro la comunità, lo Stato, la famiglia, è difficile pensare che egli possa fare a meno di cercare fra il suo prossimo qualcuno da cui attendere una conferma al proprio giudizio. Questo qualcuno è il Maestro, che egli sceglie a sé medesimo e circonda di profondo rispetto e di sincera devozione”. So che è difficile, soprattutto oggi imbattersi in una figura del genere. Ma se accade riteniamoci fortunati. Un Maestro scuote le nostre certezze e rompe i nostri limiti. In una società di commedianti è ancora il possibile che si intreccia con il reale».