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 2019  febbraio 03 Domenica calendario

Intervista a Irvine Welsh

Irvine Welsh ha appena ucciso un protagonista di Trainspotting. «Ebbene sì», ammette. E perché? «Se tutti i protagonisti fossero sopravvissuti, la saga non sarebbe stata credibile. E allora ho pensato: “Sì, adesso ne uccido uno…”. E così ho scelto la mia vittima». Non diciamo chi è, ma ora la generazione bruciata del suo romanzo culto, i suoi fab four Renton, Sick Boy, Spud e Begbie, o almeno i tre di loro rimasti, che fine faranno? «Non credo che scriverò altro con loro come protagonisti. O almeno, non tutti insieme», precisa Welsh, «magari uno o due di essi riemergeranno nei miei prossimi romanzi, separatamente, forse tra qualche anno. Ma la generazione Trainspotting al completo, si chiude qui».

Sì, si chiude proprio così, con un Morto che cammina. Edito da Guanda come gli altri libri dello scrittore scozzese di sessanta presunti anni — la sua vera età non la sa nessuno — l’ultimo romanzo di Welsh è l’ennesimo, lisergico sequel della banda di brocchi di Edimburgo, diventata pietra culturale degli anni 90 grazie al film di Danny Boyle e a Lust for life di Iggy Pop. Ora siamo arrivati al punto che Mark Renton è diventato manager di deejay, lo psicopatico sanguinario Begbie un celebre artista, Sick Boy sguazza in un giro di escort e il disagiato Spud chiede l’elemosina. Ma dopo il prequelSkagboys e i sequel Porno (alias T2 Trainspotting) e L’artista del coltello (cioè il Begbie scultore), non c’è più niente da vedere: quel treno non passerà più.
E non le spiace neanche un po’?
«Ma no. L’idea di Morto che cammina mi è venuta mentre chiacchieravo con Boyle e lo sceneggiatore di Trainspotting, John Hodge. Volevo semplicemente andare oltre, provare questo inedito universo».
Oltre ai tanti fan, c’è anche chi si è stufato dei tanti sequel di Trainspotting. Lei è ossessionato dalla sua adorabile gang?
«Non sono ossessionato, affatto. Se lo fossi, sarei stato l’autore di Harry Potter».
Però è affezionato ai suoi quattro personaggi in vena d’autore, almeno.
«Non ho un’opinione su di loro. Per me Renton, Begbie, Spud e Sick Boy sono stati semplicemente degli arnesi del mestiere, anche se ne ho scritto più spesso rispetto ad altri personaggi. Ma non penso mai a loro. Per me sono completamente astratti. Non si può avere un rapporto con persone che non esistono».
Però forse Renton è quello che le somiglia di più. In "Morto che cammina" è nel mondo dei dj come lo era lei in gioventù.
«Sì, in qualche modo sì. Tra l’altro ho appena finito di registrare un album che uscirà a breve».
Dicono sia di genere acid house, come il titolo della sua raccolta di racconti del 1994.
« Esatto. Ma Renton è anche un personaggio controverso, che in Trainspotting scappa con la grana, ma per senso di disperazione, di fuga. Ecco, in questo mi ci rivedo in Renton: sono un nomade, voglio sempre cambiare città, non riesco mai a stare fermo per molti anni».
Si può dire che Morto che cammina è una sorta di redenzione dopo Trainspotting?
«Sì. Trainspotting incarna certamente il tradimento, Porno la vendetta, Morto che cammina la redenzione, oltre a essere una riflessione sulla metamorfosi dell’amicizia negli anni. Sono sempre stato interessato alla tensione tra gruppo e individuo, e a come quest’ultimo rompa le catene del branco, per poi però ritornare dai suoi simili».
Lei è un po’ nostalgico, no?
«No. Nostalgia è sentimento e io non sono una persona sentimentale. Detesto la reminiscenza. Amo le nuove avventure».
E quali sarebbero, oltre al disco in arrivo?
«Sto scrivendo un altro libro, oltre a progetti per tv e cinema. Non voglio ancora dire nulla, ma sono molto interessato alla rivoluzione tecnologica nel lavoro. In più sto realizzando il libretto della riuscita di Zombie birdhouse, il mio album preferito del mio amico Iggy Pop, ma anche uno dei più sottovalutati di sempre. E poi, come detto, cambierò città: ora vivo a Miami, dopo Chicago, Dublino, Londra e ovviamente la Scozia… tra qualche mese tornerò in Europa, ma non so ancora dove. Devo trovare un posto che mi faccia sentire a mio agio per scrivere».
Da cosmopolita odierà la Brexit.
«Sono contro ogni concezione “insulare”. Allo stesso tempo non sopporto le corazzate burocratiche come l’Ue, un modello con tanti deficit, anche democratici. È un po’ come la relazione Londra-Scozia, che alla fine si prenderà l’indipendenza. Se si crede davvero nell’Europa, il Parlamento di Strasburgo dovrebbe avere più potere. Ma il problema vero è che tutte le istituzioni sono screditate oggi in questa società post-industriale e post-imperiale. I referendum sono solo flebili cerotti per queste istituzioni a pezzi che devono essere ricostruite al più presto per essere più congruenti alle aspirazioni e ai bisogni dei cittadini».
Il recente divorzio dalla sua seconda moglie, l’americana Elizabeth Quinn, ha influito sul suo addio a Miami?
«Sì, mi ha aperto questa possibilità…».
E lei Welsh ne ha sofferto?
«Non credo nella sofferenza. Quando finisce una storia, se ne può iniziare sempre un’altra migliore. Meglio lasciarsi che rimanere insieme senza convinzione, in un silenzioso veleno».
Lei non ha figli. È un rimpianto?
«No. Non ho mai voluto essere un genitore. Non so neanche innaffiare le piante. So che non potrei essere un buon padre. E poi non potrei mai crescere un figlio nel mondo di oggi, in cui tutti i bambini sono chiusi nel loro smartphone e non si fanno una vita. Non voglio far parte di tutto questo. E io non ho mai rimpianti. Sono una persona radicata nel presente, che vive e si diverte alla giornata. Non ho il tempo di avere rimpianti».