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 2019  febbraio 03 Domenica calendario

Colloquio tra Roberto Bolle e Stefano Massini

STEFANO MASSINI: «Un grande protagonista del teatro russo del primo Novecento, il regista Aleksandr Tairov, sosteneva che la danza iniziasse in quel punto estremo in cui le parole esauriscono la loro forza. C’è uno spazio inesplorato e stupendo, oltre il nostro parlare che all’apparenza copre l’intero ventaglio dell’espressione umana: molte zone di noi sono intraducibili negli strumenti limitati del linguaggio verbale. Ecco, mi diverte pensare che io e te, Roberto, rappresentiamo un po’ questi due emisferi. Io sono un uomo di parole, affido le mie immagini alla scrittura. Tu, viceversa, ti esprimi nell’altro linguaggio, quello del movimento, quello del corpo. Forse da questa nostra diversità nasce l’intesa che ci ha portati a collaborare».

ROBERTO BOLLE: «Per me fra l’altro è sempre stato difficile confrontarmi con l’altro linguaggio. Chissà: ad avermi portato alla danza potrebbe esser stato proprio il mio disagio nei confronti del parlare. Lo dico sinceramente: non amo le parole. Ho ricordi precisi di un fortissimo imbarazzo, fino da bambino, ogni volta che si trattava di parlare, specie se in pubblico. Qualcuno si sarebbe accontentato di definirsi affetto da timidezza cronica, rassegnandosi a gestire per la vita un disagio e rinunciando a raccontare sé stesso. Ho cercato invece una via diversa: un idioma strutturato nel movimento, anziché nelle parole».
MASSINI: «Eppure immagino non sia stato semplice: hai seguito una via intrigante ma impervia, visto che viviamo nell’onnipotenza della parola».
BOLLE: «All’inizio è stato difficilissimo. A vent’anni, quando stavo per impersonare Romeo, ero disperato: sentivo di riuscire a esprimere solo una minima parte della ricchezza del personaggio. E ci soffrivo, tanto. Poi ho imparato che in realtà l’emozione non ha bisogno necessariamente di parole».
MASSINI: «Anzi: a essere sinceri, le nostre emozioni nascono sempre dal corpo. Noi per paura tremiamo e acceleriamo il battito cardiaco, oppure arrossiamo per vergogna. Sono tutte prove di quanto il corpo sia protagonista, sempre. E le parole stesse nascono dal corpo, non sono creature mentali».
BOLLE: «A volte l’equivoco sta proprio lì: pensare alle parole come a delle tiranne che umiliano il corpo. Diciamo che io forse rischiavo di viverle così, e ho scelto di affidarmi al corpo, togliendo l’audio! È la scelta che mi ha salvato».
MASSINI: «Allo stesso modo, io mi sono salvato nella passione per le parole, per la loro preziosità. L’uso scriteriato del parlare mi suona sacrilego, e intendo soprattutto l’idea malsana per cui si può dire qualsiasi cosa, potendola poi ritrattare. Freud scrisse qualcosa di memorabile sull’incantesimo potentissimo del linguaggio: le parole sono vettori affilati, terribili, che vanno padroneggiati con estrema consapevolezza. Oggi si tende invece — penso soprattutto ai social — a far dilagare una fiumana di parole senza argini né briglie. È la dimensione quantitativa del parlare a inquietarmi. Credimi se ti dico che, per un artigiano della parola come me, equivale a sentir bestemmiare: stanno screditando uno strumento magnifico».
BOLLE: «Lo capisco molto, è la stessa reazione che provo io quando si minimizza il valore del movimento assimilandolo al gesticolare, quando si disprezza la sua autonomia, come se l’unico modo di raccontare sé stessi fosse aprire la bocca. È uno dei grandi luoghi comuni da sfatare. Mi sento di ribadire — se vuoi di celebrare — la legittimità di questa diversa forma di narrare».
MASSINI: «E poi? Quali altri errori commette la gente parlando superficialmente del tuo mondo?».
BOLLE: «L’offesa che più mi ferisce è quando dicono che la danza è noia. Noia! Hai presente quando ti senti ribollire il sangue? Anche per questo ho accettato di portare la danza in televisione».
MASSINI: «Credo che la cosa nasca da una percezione malata del tempo. Definiamo noioso tutto quello che non prevede un colpo di scena eclatante ogni sessanta secondi, siamo ossessionati dalla frase " e ora che succede?". Viviamo nella tirannia del colpo di scena, che dal cinema si è riversata sulla letteratura, sul teatro, perfino sul modo di percepire la nostra vita di ogni giorno, togliendole la libertà del passaggio, della tappa intermedia».

BOLLE: «E a proposito di libertà, a farmi amare il linguaggio del corpo c’è anche qualcos’altro. Potrei raccontarti di molte occasioni in cui ho lavorato — soprattutto in Russia — con ballerini che non parlavano una sola sillaba di italiano, né io di russo. Eppure danzavamo insieme, e il pubblico si emozionava. Il movimento è il linguaggio dell’essere umano, allo stadio puro».
MASSINI: «Certo: è il primo cosmonauta, Gagarin, che in piena Guerra fredda si stupiva di come la Terra, dallo spazio, apparisse senza confini. Mi ha sempre stupito che fossero in fondo le stesse parole di Dante nel Ventiduesimo del Paradiso, quando vede dall’alto " L’aiuola che ci fa tanto feroci"…».
BOLLE: «Perché l’arte in fondo è questo: il momento originario dell’espressione umana, l’istinto primitivo del creare, al di là delle separazioni delle tribù». 
MASSINI: «Mi fa sorridere quello che hai appena detto. Ti ascolto parlare della danza come di qualcosa di primitivo, di ancestrale: un istinto dell’uomo. Eppure vedendoti in scena è impossibile non restare colpiti dall’elaborazione accademica, dalla precisione dei passi che tutto sembrano fuorché primitivi!».
BOLLE: «Attento: quello che dici è vero se ci riferiamo al balletto classico, romantico. Ma in un secondo tempo tutto è cambiato: coreografie come il Bolero di Béjart o La Sagra della primavera di Pina Bausch, per esempio, hanno riportato in primo piano l’essenzialità della danza, ne hanno fatto un rito umano alle radici della nostra esistenza. Non so dirti quanto mi piaccia questa danza moderna, è perfetta libertà. E lo dico con tutto che ho alle spalle una formazione classica, accademica».
MASSINI: «Parliamo appunto di questa formazione, se vuoi. Mi interessa sapere se nella danza esiste ancora un passaggio di testimone fra generazioni. Io ho avuto la fortuna di avere dei maestri, fra tutti Ronconi. Non so a te, ma a me colpisce molto il modo in cui si tende sempre più spesso a erigere barriere fra le età: l’etichetta di superato è fra le più sbrigativamente elargite».
BOLLE: «Assolutamente. Io ho imparato lavorando con grandi stelle come Alessandra Ferri. E oggi sono io, a quarantatré anni, a poter passare qualcosa di me a Nicoletta Manni, prima ballerina della Scala, o alla giovane coreana con cui mi esibirò all’American Ballet».
MASSINI: «Fino da quando ci siamo conosciuti, mi sei sembrato l’emblema di qualcosa che oggi è del tutto in crisi. Intendo il valore della fatica. Ricordi Pinocchiodi Collodi? Diventava un bambino vero solo dopo aver provato duramente cosa fosse l’esperienza del lavoro fisico, il sudore, la schiena spezzata. Era un’epoca in cui ancora si aveva un concetto sacro della fatica, apprezzata come l’unico tramite per accedere a un esito. A distanza di tanti anni, tutto è mutato: intorno a noi, chi fatica è deriso».
BOLLE: «Credo sia perché la fatica implica il rapporto con i nostri limiti, ed è un tasto per noi inaccettabile. Io la Signora Fatica la conosco benissimo, ci frequentiamo da anni, quotidianamente. Significa che da anni e anni, ogni giorno, faccio i conti con i miei limiti, con le mie sconfitte. La lezione consiste anzi proprio in questo: nell’insegnamento del perdere. E da lì ripartire, ancora, e poi ancora e poi ancora».
MASSINI: «Peraltro tu, come strumento di lavoro, hai il tuo stesso corpo».
BOLLE: «E non è semplice: il corpo invecchia, cambia, si ammala, e ha i suoi tempi, non puoi pretendere di forzarlo a un’efficienza da macchina».
MASSINI: «Giusto: le macchine. Uno come te — un sacerdote del corpo — come vive l’invasione della tecnologia attorno a noi? Voglio dire: laddove un tempo eccellevano le mani degli artigiani, oggi sono entrati i bracci meccanici. Luigi Pirandello un secolo fa tremava di paura all’idea che un giorno gli orchestrali fossero soppiantati da macchine musicali. Tu non temi l’avvento dei ballerini bionici?».
BOLLE: «A dirtela tutta, io sono abbastanza elettrizzato dal confronto con le novità della tecnologia: possono rivelare un immenso contributo artistico, senza snaturare l’essenza profonda e antica della danza. Vedi, oggi sembra che tutto avvenga dentro lo schermo di un telefono o di un computer. Ma la danza no: come il teatro essa chiede persone vere in uno spazio vero, senza schermi a far da diaframmi».
MASSINI: «Io ci metterei anche che danza e teatro, proprio perché non passano da uno schermo, consentono allo spettatore la massima libertà: ognuno sceglie cosa guardare, non è obbligato a zoomare sul primo piano di Amleto perché il regista ha scelto di inquadrarlo così».
BOLLE: «Sì, è così: è una questione di assoluta libertà di sguardo, incondizionata. Ma non solo: lo sguardo sta anche nel fatto che la danza è essa stessa un punto di vista sul mondo, sulla realtà. È lo sguardo dei bambini su quello che li circonda, ed è uno sguardo potente perché autentico: solo i bambini guardano il mondo per davvero, e non sé stessi nel mondo. Sta tutto qui, credo».