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Intervista in carcere a Luca Traini, a un anno dalla tentata strage
Luca Traini, lei ha 29 anni, una condanna a 12 per il reato di strage aggravata dall’odio razziale, dopo un raid per le strade di Macerata a caccia dei “negri”, sparando a 9 persone di colore e ferendone 6. Oggi è passato esattamente un anno, e lei è in carcere: si sente ancora “Lupo”, oppure la sua caccia è finita?
«Il lupo resta un simbolo, la caccia è finita quel giorno. Già quando sono tornato a casa dopo la sparatoria, per cercare la bandiera tricolore, mi sono sentito svuotato, esaurito. Tutto si era compiuto. Ma se sei lupo, lo rimani per sempre».
Lei l’ultimo giorno del processo ha chiesto scusa alle sue vittime: è pentito per quel che ha fatto?
«Sì, e non da oggi».
Ai giudici ha anche detto di aver capito in carcere che il colore della pelle non c’entra. Ma quel mattino, mentre prendeva il caffè prima del raid, ha dato l’annuncio: “Vado a sparare ai negri”. Perché?
«In quel momento era così. Posso provare a spiegare, anche se non è semplice, come lei può capire. Per me gli spacciatori avevano ucciso Pamela, e gli spacciatori erano loro, i negri. Li chiamavo così. Oggi li chiamo neri. Poi, in questi mesi passati in carcere, ho lentamente capito che gli spacciatori sono bianchi, neri, italiani e stranieri. La pelle non conta. Vede, qui dentro si capiscono molte cose, guardando gli altri e parlando con loro».
Il delitto di Pamela è stato orribile, con il corpo della ragazza macellato e rinchiuso in due trolley. Ma lei, perché ha pensato di poter essere il vendicatore?
«Mi sono sentito spinto, trascinato da una scelta che era come un dovere. Un miscuglio di sensazioni, stati d’animo, emozioni. Quel giorno ero e volevo essere il vendicatore. Il perché, oggi è difficile da rintracciare, in mezzo a quei sentimenti che mi dominavano. È stata come un’esplosione dentro di me».
E per questo cercava i suoi bersagli maschi, africani, neri e giovani come il nigeriano incarcerato per Pamela?
«Sì, perché li avevo identificati così. A Macerata, per me allora gli spacciatori erano nigeriani. E li ritenevo responsabili dello scempio sul corpo della povera Pamela. Poi, quando in carcere ho visto passare davanti a me uno degli indagati per quell’omicidio, l’ho guardato e ho capito che l’odio era svanito. Restava l’orrore per quella vicenda terribile, ma senza più odio».
Mentre braccava le sue prede non le è mai venuto in mente che stava sparando a gente innocente, che non c’entrava nulla con Pamela e con lei, e aveva diritto a vivere liberamente in pace?
«No, in quel momento pensavo a quel che dovevo fare, e che volevo fare. Non avevo altri pensieri. Anzi, non percepivo nulla di quel che succedeva intorno a me, fuori, ero isolato nella mia automobile. Quasi non avvertivo sensazioni corporee, non sentivo né il caldo né il freddo. Tanto che sono sceso dalla macchina per consegnarmi ai carabinieri in maniche corte, ed era il 3 di febbraio».
Ha guardato negli occhi la prima vittima di via dei Velini, Mahamadou Toure, mentre gli sparava e lo colpiva al fianco gettandolo a terra?
«No, l’ho seguito arrivando alle spalle, e ho sparato».
Lei parla di giustizia, ma non era semplicemente vendetta?
«Erano tutte e due le cose insieme. Per me era vendetta, certamente, ma anche un modo di fare giustizia».
Lei sparava dall’auto con la musica fortissima e al processo ha detto che le sembrava di essere in un videogioco. Ma quando ha visto quelle persone cadere a terra, non era più un gioco, c’erano le urla, il sangue: cos’ha pensato?
«Nulla, non ho sentito le urla, non ho visto niente. Deve capire che io ero come in trance, trascinato da quel che stavo facendo, l’unica cosa che in quel momento contava per me».
Lei dice che sentiva la fiamma dell’odio: era odio razziale?
«No, era odio e basta. Se fosse stato un bianco a uccidere così Pamela, avrei cercato di vendicarmi su di lui nello stesso modo. Poi, certo, c’era quel mio pensiero fisso sui neri nigeriani, lo spaccio e la fine di Pamela».
Quanto ha pesato sulla sua azione l’ideologia di estrema destra, la convinzione di fare una “spedizione contro il male”?
«Tutta la mia ideologia politica, Dio, patria, famiglia, onore, ha pesato in quel mix esplosivo. La tragedia di Pamela ha fatto da innesco, e ha incendiato tutto».
Lei si è scritto sulle dita della mano “Outcast”, emarginato: nella decisione estrema di compiere il raid c’è anche la ribellione malintesa di chi si sente emarginato o addirittura — come lei dice — rinnegato?
«Sì, è così. C’era anche la volontà, istintiva, di uscire dall’emarginazione, fare qualcosa, lasciare il mio segno».
Perché aveva pensato a un finale diverso della storia, alla Rambo, lei asserragliato nella casa di campagna della nonna, che non spara a polizia e carabinieri i quali avanzano crivellandola di colpi?
«Mi ero portato una riserva di pallottole, cinquanta. Pensavo di difendermi quando fossero venuti a prendermi. Poi, dopo aver parlato con mia madre, e averla abbracciata, ho cambiato idea. Mi sono immaginato un finale scenografico, in cui la polizia avanzava, io non sparavo sugli agenti, e dunque finivo ammazzato. Se vuole saperlo, in quel momento speravo che qualcuno mi uccidesse. Quel che dovevo fare, lo avevo fatto».
Poi ha deciso di costituirsi, ma senza pentirsi: perché?
«Perché l’adrenalina se n’era andata. Il videogioco era finito, cominciava l’impatto con la realtà. Nella caserma dei carabinieri però mi sentivo ancora in azione, protagonista. Non volevo sentir parlare di pentimento. Arrendersi, ma non pentirsi. Poi in carcere ho avuto tempo per ragionare, elaborare, capire».
La resa sul monumento fascista ai Caduti, col tricolore sulle spalle e il saluto romano sembra un rituale pagano, come se un privato cittadino si fosse incaricato abusivamente di regolare dei conti pubblici a danno di altri, innocenti, e adesso lanciasse l’ultimo appello ideologico, nell’eco sacrilego dei suoi spari. Perché quella sceneggiata? E quando ha capito che si trattava invece di un semplice atto criminale?
«Per me il saluto romano era un gesto abituale. Un rituale simbolico. Lo facevo ogni mattina al sole nascente. Dunque non era una sceneggiata. Certo, dopo gli incontri e i colloqui in carcere, ho cominciato a rivisitare i miei gesti, e si è fatto strada il pentimento. Ma sono due momenti diversi».
Prima della resa lei ha voluto avvertire personalmente sua madre di ciò che era successo: cosa le ha detto, come le ha spiegato quel che aveva commesso?
«Non ho dato spiegazioni. Ho detto solo: mamma, non ti devi preoccupare. Lei aveva capito, o almeno aveva intuito, continuava a domandarmi: cosa hai fatto? Le ho risposto: quel che doveva essere fatto, l’importante adesso è che tu stia tranquilla».
Non ha pensato che così, oltre a rischiare di uccidere le persone a cui sparava, lei distruggeva anche la sua giovane vita, rinchiudendola in carcere?
«No, proprio no. In quel momento quel pensiero non mi apparteneva. E in ogni caso non avevo paura del carcere».
Qui in prigione ha ricevuto la lettera di sua cognata che le raccontava lo choc che la sua azione ha provocato in famiglia, ha visto al telegiornale in cella Jennifer Otiotio, la ragazza che lei ha colpito al deltoide davanti alla stazione, non ha potuto evitare le immagini televisive di un ragazzo che mostrava la ferita per lo sparo che lo ha raggiunto all’addome. Sono i tre momenti che hanno avviato il ripensamento, la revisione?
«Sì, hanno contato molto, in particolare le cose che mi dicevano i miei famigliari. Ma soprattutto ha contato per me vivere in carcere con detenuti di ogni Paese: mi ha fatto capire che la pelle non conta. Mi sono reso conto che alla fine siamo tutti poveracci».
Però lei continua a ricevere molte lettere di sostegno e di plauso per quel che ha fatto. Cosa risponde?
«Qualche madre mi chiede consiglio per i figli tossicodipendenti. Cerco di aiutarle come posso. Leggo, ringrazio, rispondo. Mi fa piacere. Ma alla fine in prigione ci sono io, solo».
Appena arrestato lei non voleva incontrare detenuti di colore: adesso?
«Non ho problemi, con nessuno. Ci sono misure carcerarie di tutela reciproca. Ma io oggi parlo con tutti».
Lei ha detto che ha cominciato a vivere quando ha cominciato a sparare: ne è ancora convinto? Non c’è qualcos’altro per cui vale la pena vivere?
«Oggi non la penso più così. Ma in quel momento, l’azione mi ha realizzato, mi ha assorbito e mi ha svuotato. Sentivo di dover sparare, l’ho fatto».
Incontrerebbe una delle persone a cui ha sparato, per stringerle la mano e chiederle scusa?
«Sì, ho già chiesto scusa durante il processo. Io sono pronto».
Non crede che ci sia troppo odio razziale oggi nel nostro Paese, che l’Italia stia cambiando?
«L’odio non nasce per caso, è frutto di tante cose, anche di politiche errate, a danno sia degli italiani che degli immigrati».
È vero che pensa a studiare, vuole laurearsi e sposarsi con Stella, la sua fidanzata?
«Vorrei laurearmi in storia, mi appassiona. Spero di poterlo fare. Stella viene sempre a trovarmi, mi aspetta. È una fortuna, e uno stimolo, una speranza per il futuro».
Quella Glock calibro 9: quando uscirà dal carcere la butterà via?
«È sotto sequestro. Ma idealmente, l’ho già buttata via da un pezzo».