Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 03 Domenica calendario

Intervista alla compositrice Rebecca Saunders

Per rispondere meglio alla domanda sulla musica del suo maestro – il compositore tedesco Wolfgang Rihm – la londinese Rebecca Saunders usa la metafora della lingua parlata: «È sempre preciso e chiaro nell’eloquio. Mai una mezza parola fuori luogo. In ogni sua frase c’è un guizzo, qualcosa che fa la differenza. La stessa identica cosa vale per le sue composizioni». Sono passati molti anni – era il 1991 – da quando l’allora giovanissima studentessa di musica si trasferì a Karlsruhe, città natale di Rihm, per studiare con «chi volevo io», dice a «la Lettura» da Berlino, la sua città d’adozione dove vive dopo vari vagabondaggi. Ora Rebecca Saunders ha vinto uno dei premi musicali più prestigiosi in assoluto, l’«Ernst von Siemens». Un riconoscimento (250 mila euro per il 2019) che dal 1974 va a un compositore, musicista o musicologo che si sia particolarmente distinto nel mondo della musica e che in passato è andato, per esempio, a Rostropovich, von Karajan, Boulez, Stockhausen, Segovia, Ligeti, Pollini, Kagel...
Descrivere in sintesi la musica di Saunders non è semplice, ma possiamo dire che si muove tra le aree del silenzio, della spazializzazione del suono, dello scavo (interiore) su poche note, dei contrasti, della complessità timbrica. Del suono «come corpo risonante che si muove nello spazio». Ecco perché i luoghi delle sue esecuzioni acquistano un’importanza che per altri compositori non hanno. 
Come mai ha scelto Berlino?
«Amo vivere nelle grandi città. Mi piace la loro complessità, il fatto che accadono cose sorprendenti e che vi affluiscano persone dai luoghi più disparati. Anche la cacofonia di una città stimola a ragionare, a pensare in un modo diverso».
Molta sua musica è legata invece al silenzio, che è il contrario del rumore. 
«Mi interessa il silenzio prima e dopo l’esplosione del suono, la sua sospensione. Mi piace esplorarne la complessità, cercarne il peso e l’oscurità. Il silenzio incornicia il suono».
Una partitura in cui ciò emerga?
«Void per due percussioni e orchestra da camera ». 
Lei scrive molto per strumenti solisti fra i più diversi, dalla fisarmonica alla chitarra suonata con il collo di bottiglia. Come sceglie?
«Mi piacciono tutti gli strumenti. Li esploro e provo a estrarne tutto ciò che si può. Cerco le molecole del suono».
È una famiglia di musicisti la sua?
«Sì, a casa avevamo diversi pianoforti».
E lei lo suonava?
«Poco, il mio strumento era il violino». 
Solo musica classica?
«Mi affascinava anche il mondo dell’improvvisazione, come i musicisti riuscivano a estrarre tanto materiale da poche note iniziali: un bel modo di procedere. Il mio approccio è simile». 
Che cos’è per lei una melodia?
«Un cambio di parametro. Può esserlo anche uno stesso suono che cambia di colore, di timbro. Oppure un intervallo». 
Quali sono le giovani promesse della musica?
«Milica Djordjevic, Clara Ianotta, Ann Cleare».
A proposito, come ha reagito quando ha saputo di aver vinto il von Siemens?
«Ero scioccata. Imbarazzata. Di solito lo si vince quando si è più anziani...». 
Le sue ispirazioni sono spesso letterarie. Ha scritto partiture legate agli scritti di James Joyce, Samuel Beckett...
«Amo questi autori ma li amano anche altri. Per me quello che conta è solo la musica in sé, la sua articolazione». 
Un compositore sottovalutato?
«La russa Galina Ustvol’skaja, scomparsa nel 2006. Una delle voci più coraggiose del ventesimo secolo. Forse troppo, per essere davvero capita».