La Lettura, 3 febbraio 2019
I segreti dei templi di Paestum
Per i viaggiatori del Grand Tour era d’obbligo una visita a Paestum, l’antica Poseidonia fondata dai coloni greci nel 600 a.C. I disegni di Giambattista Piranesi l’avevano resa famosa in Europa. Goethe ci arrivò nel 1787 e rimase incantato dalla maestosità dei templi. Non tutti ne avevano rispetto, tuttavia. Sul frontone orientale del tempio di Nettuno, ripulendo uno spesso strato di muschi e licheni, sono affiorate decine di iscrizioni e firme a matita di visitatori francesi e tedeschi con le date 1820 e 1821.
A quel tempo era scarsa la sensibilità verso i beni architettonici e la loro storia. I tesori di Paestum andavano in rovina e intorno pascolavano le bufale. Uno stato di abbandono di cui approfittavano i cacciatori che rubavano il piombo con cui i Greci avevano fissato i blocchi di travertino e ne ricavavano pallini. Nel 1874 ci fu addirittura chi voleva smontare le colonne per decorare il palazzo di Capodimonte a Napoli. Follia abbandonata, e tuttavia alcuni pezzi di un tempio presero la via di Salerno ad abbellire la Cattedrale di San Matteo.
Lo sbarco degli Alleati durante la Seconda guerra mondiale fece correre ai templi un notevole rischio. I militari installarono un ponte radio nel tempio di Nettuno e collocarono un deposito di munizioni in quello di Cerere. Oggi i templi sono salvi grazie ai restauri. Gli ultimi, i più importanti, fra studi iniziati nel 1988 e interventi pratici, si sono prolungati nell’arco di oltre vent’anni. Ce lo racconta un bel libro a più voci curato da Giovanna De Palma: I Templi di Paestum tra restauro e manutenzione (Gangemi editore).
Un dato che colpisce è lo stupore con cui ancora oggi gli studiosi considerano la fantastica ingegnosità degli antichi. Per indagare capacità progettuali e ingegneristiche, i geologi si sono concentrati su uno dei tre templi di Paestum, quello di Cerere. Hanno scoperto che poggia su fondazioni straordinariamente profonde e robuste. Nel sottosuolo è incassata una muratura in travertino con uno spessore di 2,35 metri e una profondità che raggiunge i cinque metri.
A differenza delle colonne dei Romani, spesso costituite da un unico blocco, quelle dei Greci sono formate da blocchi appoggiati l’uno sull’altro, stabili in virtù dell’attrito fra le superfici dovuto all’enorme peso. Da 2500 anni reggono l’urto dei terremoti, che nel corso dei secoli hanno inflitto danni irrisori: il colpo più serio ha frantumato uno spigolo del tempio di Nettuno. Ferite peggiori sul colonnato di questo monumento le hanno incise i fulmini, tanto che 4.600 scaglie si erano staccate. Le hanno incollate e stabilizzate con perni metallici.
È possibile immaginare alcune procedure degli antichi costruttori. Dopo avere innalzato le colonne con blocchi grezzi di travertino giallo dorato, entravano in azione gli scalpellini. Un sistema di funi calate dall’alto li manteneva sospesi mentre intagliavano le scanalature verticali nelle colonne. Riuscivano a tracciarle dritte grazie ai fili a piombo appesi a ganci metallici ancora visibili nei capitelli dorici. La costruzione di un tempio richiedeva l’allestimento di un grande cantiere dove agivano muratori, scalpellini, carpentieri. Quest’ultimi preparavano il legno per la copertura con asce e trapani a corda. Incredibilmente, in cima al tempio di Nettuno resistono ancora tavole di legno saldate, un caso unico dopo 25 secoli. Quello di Nettuno è un tempio costruito intorno al 450 a.C., la distanza fra una colonna e l’altra costituisce la prova della maestria degli antichi. Lo spazio è sempre uguale, in qualche caso c’è solo un lieve scostamento di tre millimetri. Sembra che i Greci avessero costruito un altro tempio che poi smantellarono. Recuperarono alcuni blocchi e li installarono nell’architrave del tempio di Nettuno, che mostra pezzi diversi fra loro. È probabile che da quel vecchio tempio distrutto provengano gli ex voto arcaici emersi dalle fosse sacre (bothroi).
All’inizio dei restauri i templi erano in pessime condizioni. Arbusti, rovi, cespugli ne avevano preso possesso, dagli architravi venivano giù rampicanti fioriti. «Le colonne – dice Giulia Caneva, docente di Botanica all’Università Roma Tre – erano ricoperte da milioni di organismi neri, patine biologiche, muffe, licheni e incrostazioni di carbonati». Ciascun elemento patogeno doveva essere neutralizzato con tecniche specifiche. Oltre alle sostanze antibiotiche, sono state messe in campo nuove tecnologie, choc termici e aggressione mirata punto per punto con micropenne ad alta frequenza.
Ecco, dopo una meticolosa pulizia, risplendere di nuovo l’ocra chiaro dei colonnati. In alcune zone sono riaffiorate macchie di colore celeste, giallo, rosso che in origine formavano decorazioni. Le indagini diagnostiche sulle colonne più deteriorate sono avvenute con strumenti non invasivi, sensori a bassa frequenza per letture soniche dotate di oscilloscopio e utilizzo di georadar. Nemica dei templi è l’acqua. S’infiltra, ristagna, sgretola il travertino. L’hanno arginata con malta e guaina elastomerica.
Su alcuni capitelli del tempio di Hera, denominato la Basilica, sono venute alla luce tracce di antiche figure in rilievo. Resistono perfino chiazze di colore giallo, celeste e nero, nonostante la Basilica sia il più antico dei tre templi. Fu costruito intorno al 550 a.C. e ancora ha molto da raccontare: gli archeologi hanno scoperto che lo spazio riservato agli officianti del culto (adyton) subì modifiche. Significa che serviva un ambiente diverso perché i rituali iniziali erano cambiati.
Per non arrecare eccessivo disturbo a una specie protetta di gechi che frequenta le colonne, i restauri si sono svolti con cautela. Alla fine, nell’intero parco archeologico gli oleandri sono stati sostituiti con piante di melograno, simbolo della dea Athena. «Ora, però – dice Giuliana Tocco, ex soprintendente ai Beni culturali di Salerno —, mi preoccupano i sentieri. Sono molto deteriorati, bisognerà limitare il numero di visitatori e munirli di speciali calzature».