La Lettura, 3 febbraio 2019
Anche le donne erano copiste
Un piccolo inserto di tartaro dentale colorato di blu illumina la storia culturale di un continente, secondo lo studio di un team di archeologi e antropologi guidato da Anita Radini dell’Università di York, nel Regno Unito. L’analisi di reperti ossei rivela spesso agli archeologi usi e costumi di un’epoca. Gli studiosi cercavano tra i resti delle monache del monastero medioevale di Dalheim, in Germania, i rimasugli di vegetali che potevano raccontare le abitudini del monastero. Ma uno dei corpi, quello di una donna tra i 45 e i 60 anni, datato con il radiocarbonio tra il 997 e il 1162 d.C., ha rivelato tra i denti particelle blu: un pigmento tratto dal lapislazzulo, pietra costosa come l’oro estratta in Afghanistan, il cui uso era riservato alla creazione di gioielli o di pigmenti brillantissimi, per la miniatura dei manoscritti più prestigiosi. La presenza del lapislazzulo mostra non solo l’estensione del commercio della pietra rara, che dall’Oriente giungeva fino a un piccolo monastero in terra germanica, ma soprattutto il fatto che anche le monache rivestissero il ruolo di copiste di solito attribuito ai colleghi maschi. L’importante lavoro di tramandare il sapere era affidato anche alle donne, che potevano leggere e riscrivere libri e quindi avevano accesso alla cultura. E dovevano essere abili, se potevano lavorare con una pietra così preziosa. Meno plausibile l’ipotesi che la monaca fosse impegnata solo nella produzione del colore, per motivi sociali (le religiose dell’epoca appartenevano a famiglie nobili) e per motivi pratici: la produzione del pigmento non produce polvere volatile. Il passaggio del colore era avvenuto quindi direttamente dal pennello, umettato con la lingua.