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 2019  febbraio 03 Domenica calendario

Elogio del fallimento

Anche solo a sentirla nominare, la parola fallimento crea un blocco emotivo e mentale. Il termine, che deriva da «fallo», cioè errore, richiama il concetto di vagare, abbandonare la retta via, o violare «una norma non conforme alla morale», sanzionabile socialmente. 
Dare una nuova prospettiva a questa parola è lo scopo del saggio di Francesca Corrado, Elogio del fallimento (Sperling & Kupfer). Attraverso cinque lezioni teoriche, esercizi pratici ed esempi provenienti dal mondo aziendale, da sport, arte, letteratura e scienza, il volume traccia una metodologia per «educare» a una sana cultura del fallimento, perché questo non sia più vissuto come un marchio indelebile o uno stigma invalidante.
Corrado, 38 anni, è economista ricercatrice e presidente di Play Res, startup no profit che si occupa di ricerca, promozione e formazione attraverso tutte le forme del gioco; ma è anche l’ideatrice della prima Scuola di fallimento, nata a Modena nel 2017 e fondata con i soci di Play Res, psicologi e neuroscienziati: «Un’idea nata dagli eventi negativi della mia esperienza personale – spiega l’autrice a “la Lettura”—. Fino al 2014 ero presidente di una startup innovativa, avevo un contratto di docenza di Storia del pensiero economico all’Università di Modena e Reggio, un fidanzato, una casa, una famiglia su cui contare. Nel 2015 avevo perso tutto».
Francesca cade nel pozzo dei suoi fallimenti: «Tutto in quel momento della mia vita era negativo e mi sentivo ripetere quanto fossi stata sfortunata». Poi, la reazione: tornare a casa dei genitori e occuparsi del padre malato le permette di rivedere le sue esperienze in chiave diversa, «così ho deciso di intraprendere una battaglia culturale, condividendo la mia vicenda con gli altri». Corrado inizia a fare outing di tutti i suoi fallimenti. Nel percorso di chiunque il fallimento è dietro l’angolo: un insuccesso lavorativo, scolastico, economico, sportivo; un sogno che non si realizza; la fine di una relazione. Spesso si immagina la vita come un processo lineare – studiare, fare carriera, sposarsi, avere figli – in cui l’incertezza non è contemplata. Ma questo percorso a tappe è innaturale, «la società ti obbliga a incasellarti in determinate etichette», spiega ancora Corrado, e quando compare l’imprevisto, la discontinuità rispetto alla linea retta, arriva la paralisi: paura e senso di colpa. Il fallimento ci fa sentire «sbagliati». Ma noi non siamo il riflesso delle nostre cadute.
Per combattere il marchio dell’errore, bisogna provare a trasformarlo in un «viaggio di scoperta del sé, dei propri limiti e talenti». Sbagliare per imparare, per reinventarsi, per creare qualcosa di nuovo: «Il fallimento non è una disfatta senza via d’uscita, ma il punto finale di una serie di errori». Dobbiamo imparare ad «alfabetizzarci al rischio» perché senza la deviazione dell’errore non ci sarebbe innovazione e progresso.

La cultura del fallimento è diversa nei Paesi del mondo. In Italia e negli Stati cattolici, per esempio, fallire ha a che vedere con concetti di «pena, svilimento, perdita di dignità». Parole di matrice religiosa ed economica hanno spesso la stessa radice: «credente» e «creditore» (da «credere»: prestare fede, affidare), oppure «debito» e «colpa», che hanno un legame con il peccato. I Paesi protestanti sono più propensi alla cultura del fallimento (il concetto di salvezza gratuita viene dalla Riforma del XVI secolo); qui l’errore «viene visto con favore, perché ha una funzione di regolatore del mercato ed è metro di misura del merito», scrive Corrado. Per questo, anche il rischio di fallimento aziendale è limitato dalla legislazione: c’è più fiducia nel mercato, nelle persone, nella necessità di dare credito. La nostra sembra essere più una «cultura schizofrenica del successo»: da un lato si elogiano i vincitori, dall’altro si guarda con sospetto a chi ce l’ha fatta, soprattutto se giovane.
Uomini e donne reagiscono diversamente al fallimento, soprattutto per motivi culturali. «Le donne temono di più l’errore – prosegue l’economista – vivono più il senso di colpa di non essere brave, a causa dell’educazione che spesso le trattiene»; alle bambine si insegna a evitare la sconfitta, a stare composte e brave. Da adulte, oseranno meno.
Anche l’età incide. L’esperienza della Scuola di fallimento (rivolta a persone dai 3 anni in su) porta Corrado a sostenere che è più difficile lavorare con gli adulti (50-60 anni), soprattutto con chi viene da situazioni di successo o da ambienti imprenditoriali. E le aziende sono i settori più difficili con cui confrontarsi, perché reticenti ad ammettere la sconfitta.
La realtà di Modena lavora anche con le startup e con i Neet (ragazzi tra i 15 e i 19 anni che non lavorano e non studiano), ma sono soprattutto le scuole (3-14 anni) a iscriversi ai corsi, che non sono mai individuali ma indirizzati a gruppi omogenei. I docenti lavorano su più linee insieme: si parte da un focus sulla persona («cerchiamo le fragilità, i punti di forza, analizzando anche l’ambiente in cui si vive, fattore responsabile al 90% degli errori»). Dopo il lavoro sul mindset dei partecipanti (la propensione mentale ad accettare le sconfitte, che può essere di tipo statico o dinamico), si passa al gioco. La metodologia della Scuola si fonda sulla simulazione (che fa vivere gli errori in prima persona) e in particolare sul teatro, poiché l’improvvisazione teatrale si basa sull’idea che non ci sono errori e che niente per principio è sbagliato.
«Sbagliando si inventa» scriveva Gianni Rodari nella  Grammatica della fantasia (1973), credendo che nell’errore risiedesse la possibilità della storia. Perché forse il fallimento non è un insuccesso, ma una deviazione da percorsi possibili.