Corriere della Sera, 3 febbraio 2019
Capitali in movimento tra Europa e Italia
Malgrado due crisi del debito in un quarto di secolo e tre recessioni in dieci anni, l’Italia resta ciò che è sempre stata: una ruota importante negli ingranaggi dell’economia internazionale, della quale il Paese sta cogliendo (anche) i benefici con quasi 500 miliardi di euro in esportazioni ogni anno. L’altra faccia della medaglia di questa capacità del settore manifatturiero di stare sui mercati è meno visibile, perché riguarda la rete idraulica del sistema finanziario, quella che permette alla liquidità di circolare attraverso le frontiere e alle aziende di produrre, assicurare, spedire e consegnare nel mondo.
Anche su quest’ultimo piano, finanziario, l’integrazione dell’Italia in Europa e oltre resta profonda, come mostra un valore appena aggiornato dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri): l’esposizione della banche del resto del mondo verso l’economia italiana si dimostra stabile nell’ultimo semestre registrato (fino a fine settembre scorso) a quota 790 miliardi di dollari. La recessione non ha ridotto l’impegno del sistema finanziario internazionale nel Paese. Gli istituti esteri hanno sì tagliato le loro posizioni in titoli di Stato (scese di 20 miliardi); gli istituti francesi e spagnoli, in particolare, hanno certamente limato in tempi recenti il loro rischio Italia complessivo (meno sette e meno nove miliardi, rispettivamente) pur restando molto impegnati nel Paese. Ma a dare la misura degli effetti dell’euro basta notare che vent’anni fa, alla vigilia della moneta unica, le banche estere non osavano ancora mettere a rischio in Italia più di un terzo delle somme che hanno investite oggi in aziende, progetti e debito del Paese.
Con l’euro, dunque, senza il rischio di continue svalutazioni, l’Italia riceve prestiti e capitale dal resto del mondo per circa 500 miliardi di dollari in più. È diventata un’economia più aperta e neppure i tremori dei mesi scorsi hanno messo questa realtà in discussione.
L’aggiornamento dei giorni scorsi della Bri rivela però un riflesso dell’«incertezza» di cui ha parlato ieri Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Lo fanno quando si guarda all’altra parte dell’integrazione del Paese nel mondo: l’esposizione degli istituti del Paese, grandi, medi o piccoli, verso le altre principali economie europee e globali. Qui il «marcato aumento dell’incertezza» – sempre nella definizione di Visco – ha chiaramente lasciato il segno sulle scelte degli operatori finanziari italiani a partire dalla primavera dell’anno scorso. La ritirata complessiva delle banche del Paese dalle prime cinque economie europee (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Olanda) è arrivata a valere l’equivalente di quaranta miliardi di dollari. In alcuni casi il taglio dell’esposizione degli istituti italiani si è consumato durante i sei mesi centrali del 2018, come in Germania (meno 17 miliardi) o in Spagna (meno sette miliardi). In altri invece la ritirata si è concentrata in maniera più precipitosa nei tre mesi fino a fine settembre 2018, come è successo con la Francia (meno sei miliardi) o con la Gran Bretagna (meno sette miliardi). Al contrario, verso gli Stati Uniti e il Giappone le banche italiane hanno scelto di aumentare la loro esposizione nell’ultimo periodo.
Naturalmente restano ancora investite nel resto d’Europa per centinaia di miliardi di dollari (la Bri fornisce i dati in valuta statunitense). La terza economia dell’area euro non taglia i ponti con la globalizzazione, neanche durante un governo «sovranista». Una ritirata così rapida come quella dei mesi scorsi non può essere frutto del caso e riflette probabilmente l’insicurezza di chi opera dall’Italia sui due punti ricordati da Visco: l’appartenenza all’euro e la situazione di bilancio. Senz’altro la scarsa visibilità su entrambi gli aspetti ha generato malessere, il malessere del ripiegamento degli operatori finanziari e quest’ultimo non può certo aver aiutato quella che resta la principale fonte di ricchezza e lavoro del Paese: la capacità di affacciarsi sul mondo e vendere i migliori prodotti del «made in Italy». Ma la partita, naturalmente, resta aperta.