Corriere della Sera, 3 febbraio 2019
Intervista a Roberto Vecchioni
Lontano da San Siro e verso l’infinito, in una Milano dove non c’è Starbucks ma il bar dei cinesi, in una piazza così così tra via Padova e il Casoretto, Roberto Vecchioni è sempre lui: voce del verbo sognare. Parole, musica, canzoni, amori, dolori, figli, mogli, amici, poesia, politica, libri, liceo, università, Inter, Seneca, Eschilo, Leopardi, Papa Francesco... E forse abbiamo dimenticato qualcosa...
«Si, forse altre cento, mille voci. Ma tutte in fondo si riassumono in una sola: umanesimo. Non esiste altra soluzione che escluda questo tempo immutabile dell’anima».
L’ultimo album, un disco d’oro, venticinquemila copie vendute: cd e vinile. Niente internet. Nessun supporto digitale. Come un tempo. È un rifiuto, un ritorno al passato?
«È stata una scelta romantica, una spacconata del ricordo. Internet va bene per altro. Un disco è cosa viva, si deve tenere in mano, guardarlo, accarezzarlo perfino. Finché c’è, ci sei».
Certe canzoni riempiono dei vuoti. «Ti insegnerò a volare» è un inno a chi non si arrende al destino. Oggi c’è in giro troppa rassegnazione?
«Sì, penso di sì, ma è difficile il contrario. Qui non si tratta di rendere perfetto il mondo, che è richiesta assurda. Ti insegnerò a volare è per singulos, non per l’umanita intera. Datti la forza di tirare dritto e non avere paura di sbagliare o perdere. Scegli sempre, non farti scegliere, anche se farai fatica. Non sdraiarti, stai dritto, il destino è semplicemente quello che non vuoi essere o non vuoi fare».
Alex Zanardi è l’eroe umano che batte il destino. Quarant’anni dopo «Samarcanda», una delle canzoni più famose, una metafora del destino...
«Samarcanda oggi non la scriverei. Non credo affatto al destino, credo nella volontà e nella libertà umana».
Come ha preso forma questo nuovo viaggio, verso l’infinito…
«Se faccio un disco adesso, a 75 anni, mi sono detto, non deve essere più per parlare di questo o quel sogno, di questo o quell’amore, di deliri, malinconie, speranze, miti, incontri e disastri. Se faccio un disco adesso dev’essere per sempre, e basta girarci intorno con accenni o metafore. Si va dritti al centro e il centro è la vita».
«La vita che si ama», come scrive in uno dei suoi libri.
«Perché è così: tutti noi la vita l’amiamo, al punto, come scrive Hikmet, di darla via per altri; al punto che ogni forma di odio è in realtà amore frustrato, terrore di passare invisibili in un romanzo che mischi le pagine e diventa un altro romanzo, non tuo... E scorri le pagine e non ti ritrovi più...».
Come mai la scelta di Leopardi e non di altri contro il pessimismo e il disfattismo?
«Mi serviva l’esempio all’apparenza più impossibile per dire quanto è forte l’amore per ciò che si vive, quanto sia in tutti, magari nascosto o negato. E Leopardi, quello che io conosco, quello che ho sempre raccontato, era quell’esempio».
L’ultimo Leopardi però, quello di Napoli...
«Quello che in compagnia di Ranieri scopre un mondo che gli era sempre stato invisibile: si vive, si può pure vivere, senza sempre pensare e ripensare catastrofi cosmiche e ineluttabilità del dolore. Anzi a Leopardi vien voglia di fare una tregua con questo dolore, che anche lui non ne può più. E adattarsi alle forme mobili della vita, o immobili come la ginestra, che è lì a spandere profumo e non sta a chiedersi niente dell’universo e del destino».
Qualcuno ha scritto che questo suo «Infinito» è una sola lunghissima canzone.
«È vero e Leopardi è il simbolo di tutto il disco. La vita si deve prima di tutto vivere. L’infinito, forse, non è al di là ma al di qua della siepe».
Ma di qua dalla siepe non ci sono solo successi e gloria, c’è anche il dolore, la fatica, la malattia. Qual è l’esperienza più dura?
«Quando i figli stanno male. E non puoi farci niente».
Ai figli ha dedicato canzoni dolci e struggenti.
«Io ho cantato tutti i miei figli, così diversi uno dall’altro e così vivi, tutti quanti».
La prima volta, nel 1976, è stato con «Figlia». Indimenticabile il finale: «Tu grida forte/la vita contro la morte».
«Figlia non è una canzone, ma piuttosto un manifesto, una dichiarazione di intenti e di coerenza che ho disatteso tante volte, purtroppo».
Poi nel 2002 è uscito l’album con «Figlio, figlio, figlio». Un’altra autocritica.
«Questa è fortemente generazionale, nasce dal quadro di valori e di consolazioni molto diverso fra me e il mio ragazzo. Ma è anche una dura constatazione, di essere stato io fragile, di avere io la maggior parte delle colpe».
Infine «Le rose blu», il dramma di un padre che non sa che cosa fare davanti a una malattia improvvisa del figlio.
«Le rose blu è una lunga preghiera, un a tu per tu con Dio, una proposta smisurata di scambio per l’altro mio ragazzo. Per scriverla mi sono chiuso in uno sgabuzzino per due giorni e due notti e non ho mai provato brividi così forti».
Paura per il futuro dei giovani oggi?
«No. Ho solo amarezza per ciò che perdono senza rendersene conto».
Si sente la mancanza di parole forti?
«Diciamo che c’è una prestigiosa gamma di volute ignoranze. Penso alla memoria: non come friabile ricordo, ma come presenza fisica di ogni istante passato. O alla cultura: oggi sotto i ferri di Torquemada. Oppure al sogno: cioè l’altra verità tra le infinite ombre del vero. E spesso si ignora quello che abbiamo dentro: come unico possibile infinito».
C’è una canzone che riprende un titolo di Mario Capanna, leader della contestazione, «Formidabili quegli anni». Rimpianti per il ‘68 e i primi anni Settanta?
«Per niente. Formidabili quegli anni non è e non vuole essere la celebrazione sconsiderata di un periodo. È il ricordo luminoso e intatto di com’ero io allora, e perché no, delle utopie e dei sogni che mi hanno reso forte sempre».
È più forte la malinconia per certe stagioni o il coraggio di battersi per certi ideali?
«La malinconia è una carica per gli ideali».
Ai giovani dice: tocca a voi mostrare i denti. Perché i giovani non si ribellano e sembrano guardare con apparente distacco quello che accade intorno a loro?
«I giovani si ribellano pure, ma in maniera più frammentaria, slegata, passatista e destinata spesso a soccombere. Non c’è e non può esserci quell’afflato, quello spirito unitario di una volta. Spesso si comincia e si molla subito: le insormontabili montagne dell’economia globale, del potere ovunque granitico, smontano i sogni, limano gli ideali fino al livello di compromessi. C’è meno voglia, meno tempo, bisogna correre per salvarsi».
Roberto Vecchioni ha più fiducia nelle donne o negli uomini?
«Non ho alcuna fiducia negli uomini. Nelle donne si, ma devono meritarsela».
Le sue donne cantate tante volte, come sono?
«Io ho una donna sola che è tutte le donne del mondo. Non potrei nemmeno immaginare una giornata senza di lei: sarei perduto. Le altre, il passato, sono immagini lontane. Un poetastro come me finge, si sbatte, lacrima e autoconvince pure, ma sono spesso spudorati colpi di teatro...».
Anche il festival di Sanremo è stato un colpo di teatro. O forse una rinascita e un atto blasfemo per uno che canta con la poesia...
«Sanremo è stata una sfida, uno sfizio, una rivendicazione, un forte bisogno di dire “vedete, sono qui, sono io, smettetela di pensarmi snob e di nicchia”. È stata una toccata e fuga e se tornassi indietro lo rifarei».
Una volta ha detto che ognuno ha il diritto o forse il dovere di essere felice. È un altro invito a vivere la vita. Ma qual è la vita felice?
«La felicità non va definita, va vissuta perché la felicità è il vivere stesso. Se continuiamo a pensarla come un giardino dell’Eden, uno scorrere ininterrotto di ridi e scherza, siamo degli illusi. Lei è il nostro respiro, il nostro pensiero, la nostra emozione. Abbiamo in noi i mezzi per riconoscerla quando c’è, e aspettarla quando ci sembra momentaneamente assente».
Ai valori di sempre ne ha aggiunto un altro: il perdono. L’amico Arnoldo Mosca Mondadori le aveva chiesto una dedica per Papa Francesco e invece ha scritto una canzone...
«È il mio illuminismo credente. Nessuna superlode o sviolinata: odio l’ovvio. Questa non è una canzone di fede superumana, ma umana. Si perdona anche se non si crede. Il perdono è umano, non ha bisogno di nessun premio dal cielo. Lui lo sa».
L’uomo che vince il proprio destino e la fede che abbatte i muri: il messaggio dell’«Infinito» e la parola di Papa Francesco. Ma quei barconi in mare carichi di disperazione e speranza, oggi che cosa le fanno pensare?
«Che abbiamo sbagliato tutto, dal Vangelo in poi».