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 2019  febbraio 02 Sabato calendario

Bitcoin, in rovina i minatori digitali

La Spoon River del Bitcoin — dopo aver creato e distrutto fortune milionarie in poche settimane — si prepara a celebrare altre vittime: i minatori digitali. Centinaia di migliaia di aspiranti imprenditori che a fine 2017 — quando la moneta virtuale valeva 17 mila dollari — hanno comprato le macchine necessarie per coniarla, convinti di aver pescato il jolly della vita. E che oggi, con la “materia prima” crollata a quota 3.456 dollari, son stati costretti quasi tutti a sospendere l’attività, spegnendo le macchine, rimettendo nel cassetto i sogni di gloria (con ampie minusvalenze) e provando ora vendere sul mercato dell’usato a pochi euro i marchingegni "stampa-Bitcoin" che solo un anno fa ne costavano 500 l’uno. Nessuno — come sempre capita quando si perdono tanti soldi — fa outing volentieri. Ma i numeri — assicura chi conosce bene il mercato — sono quelli di un’ecatombe. «Tra 600 mila e 800 mila minatori fai da te hanno abbassato la saracinesca negli ultimi 12 mesi», calcola Shixing Mao, presidente di F2pool, una delle maggiori mining farm cinesi. E anche l’Italia ha le sue croci: «I costi per produrre i Bitcoin da noi sono proibitivi — ammette Gabriele Stampa, presidente di Bitminer, la più grande fabbrica di criptovalute del Belpaese —. Noi abbiamo spento il 70% dei dispositivi e stiamo lavorando per trasferirci all’estero dove l’elettricità per la produzione costa molto meno. Ma molti dei 30 mila miner tricolori hanno cessato l’attività». Il perché è facile da spiegare: «Ai prezzi della corrente elettrica italiana, produrre un bitcoin al mese costa circa 10mila euro», dice Matteo Moretti di CriptoMining.

Come dire che oggi un comune mortale ne perde 6.500 per ogni moneta che riesce a creare. «Noi continuiamo a lavorare perché abbiamo un contratto che fissa i prezzi della bolletta luce fino al 2020 — aggiunge — e siamo ancora in pareggio a questi valori di mercato». Ma le due miniere della società nel cuore di Milano sono un’eccezione: nel 2017 i produttori di moneta virtuale consumavano lo 0,5% della produzione mondiale di energia, ora siamo a livelli inferiori del 35-40%.
«Il mercato si sta consolidando verso un’industria dove vince chi ha la massa per competere» dice Stampa. Il break-even per produrre senza perdere soldi, dice Jp Morgan, è di 4.060 dollari a Bitcoin. Cifra che scende o sale a seconda del prezzo dell’elettricità. Molte aziende si stanno spostando in Irlanda, Romania, Russia o in Oriente, dove si può guadagnare denaro anche con la quotazione a mille euro.
Cosa succederà ora agli apprendisti minatori fai-da-te che stanno provando a resistere? Dipende, ovviamente, dai capricci dei mercati. Ma il vento, per ora, non pare aver girato. La Borsa di Hong Kong ha bloccato la quotazione di Bitmain, uno dei protagonisti del settore, che fino a dodici mesi fa veniva valutato 60 miliardi e che oggi sta provando a convertirsi all’intelligenza artificiale per sbarcare a listino. Il valore del Bitcoin viaggia a livelli inferiori dell’80% rispetto ai picchi.
Recitare il de profundis per i miner — dicono però gli highlander che non hanno alzato bandiera bianca — è prematuro: «Questa fase mi ricorda la bolla della new economy del 2000 quando Tiscali valeva più della Fiat — dice Moretti — . Lo scoppio della bolla non ha segnato la fine dell’era dell’hi-tech. Che ha dato tante soddisfazioni ai risparmiatori negli anni a venire». Chi è rimasto in minera a cercar oro con i Bitcoin spera che anche questa volta vada davvero così.