Corriere della Sera, 2 febbraio 2019
Le carte sul processo a Salvini
Che dietro la decisione di Matteo Salvini ci fosse la «volontà politica» di attuare il suo programma elettorale e di governo in tema di immigrazione, l’ha riconosciuto anche il Tribunale dei ministri che chiede di processarlo per sequestro di persona. Sono i tre giudici di Catania, infatti, a scrivere nella relazione inviata al Senato che la scelta del ministro dell’Interno di non far scendere i 177 profughi dalla nave Diciotti «non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base a un principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri».
Esattamente la linea del governo, quindi, rivendicata pure dal premier Conte, e dall’altro vice-premier Luigi Di Maio. È su queste basi che, secondo l’autodifesa di Salvini, si fonda il «perseguimento di un preminente interesse pubblico» che dovrebbe portare la Giunta e l’assemblea di palazzo Madama a negare l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Ed è su questo punto che, sgombrato il campo da equivoci più o meno strumentali sull’immunità parlamentare e il garantismo, si dovranno pronunciare i senatori. Compresi quelli del Movimento Cinque stelle. I quali tuttavia sono chiamati a fare i conti pure con le valutazioni che proprio su questo aspetto ha già fatto il Tribunale dei ministri, in attesa che la Camera di appartenenza del ministro pronunci l’ultima parola. Se infatti il procuratore Carmelo Zuccaro, nella sua richiesta di archiviazione, ha ritenuto di doversi fermare davanti alla «scelta politica che competeva al ministro nella sua veste istituzionale», e «come tale insindacabile da parte del giudice penale», il tribunale afferma che le conseguenze non sono così scontate.
Il rispetto dei diritti
«Gli indirizzi di governo non esimono dal rispetto dei diritti garantiti dalla Carta»
«Le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in luogo sicuro», scrivono i tre giudici del collegio. Ricordando le sentenze della Corte costituzionale secondo cui «la discrezionalità nella gestione dei fenomeni migratori incontra chiari limiti, sotto il profilo della conformità alla Costituzione e del bilanciamento di interessi di rilievo costituzionale, nella ragionevolezza, nelle norme di trattati internazionali che vincolano gli Stati contraenti e, soprattutto, nel diritto inviolabile della libertà personale, trattandosi di un bene che non può subire attenuazioni rispetto agli stranieri in vista della tutela di altri beni costituzionalmente tutelati». È ciò che non sarebbe avvenuto nel caso della Diciotti.
Il nodo dei confini
Il vicepremier parla
di difesa dei confini
ma i migranti
erano già in Italia
Secondo il tribunale Salvini poteva perseguire il proprio obiettivo politico senza violare i trattati e le altre norme richiamate dai giudici: «Le persone soccorse ben potevano, in conformità alle Convenzioni internazionali vigenti, essere tempestivamente sbarcate ed avviate all’hotspot di prima accoglienza per l’attività di identificazione, salvo poi, in caso di esito positivo della riunione del 24 agosto (quella in cui l’Unione europa avrebbe dovuto rispondere alle richieste italiane, ndr), essere smistate negli hotspot di destinazione secondo gli accordi eventualmente raggiunti a livello europeo».
Queste considerazioni del tribunale partono dal presupposto che quando Salvini ha avviato il braccio di ferro non concedendo il permesso di sbarco richiesto dalla Guardia costiera, i 177 migranti bloccati a bordo della Diciotti fossero già in territorio italiano. Il ministro continua a ripetere che in quell’occasione ha «difeso i confini del Paese», ma i profughi soccorsi e accolti sulla motonave militare li avevano attraversati da tempo. Si trovavano in Italia, e secondo i giudici non c’erano ragioni – né politiche né di altro genere – per non farli scendere e identificarli secondo le procedure già predisposte dalle autorità di pubblica sicurezza. Che, come hanno spiegato i funzionari del Viminale interrogati, avevano deciso di far attraccare la Diciotti a Messina poiché i migranti dovevano essere portati nel centro di raccolta di quella città. All’ultimo momento, invece, è arrivato l’ordine di far attraccare la Diciotti a Catania.