la Repubblica, 2 febbraio 2019
Nuove tecnologie, vecchie superstizioni
Certo, il cornetto rosso appeso allo specchietto retrovisore non è più di moda da un po’, ma chiunque abbia un conoscente che è stato in Giappone ha in casa un delizioso Maneki Neko, il gatto- statuina portafortuna con la zampina alzata per attirare l’attenzione e, sullo stomaco, un papiro con ideogrammi misteriosi ma sicuramente propizi. È vero, magari non ci accorgiamo nemmeno più di passare sotto le scale, visto che ormai le impalcature edili sono lo sfondo obbligato delle nostre passeggiate in città, ma facciamo sempre in modo di non camminare sulle linee di separazione tra le mattonelle,” perché non si sa mai”. E siamo sempre convinti che premere più e più volte sul pulsante per chiamare l’ascensore lo faccia, in qualche modo, arrivare prima o lo difenda meglio dalle chiamate altrui. Riti, amuleti e mascotte cambiano, ma la scaramanzia è un evergreen, perfino nell’era tecnologica. Anzi, è proprio la tecnologia a far emergere i nuovi riti.
«La superstizione nasce dal nostro bisogno di dare un senso al mondo. Ed è difficile trovare il senso, ovvero capire il funzionamento, dei feticci tecnologici contemporanei come l’iPhone perché sono opachi, sono “chiusi”, a differenza, per esempio, delle biciclette dove il meccanismo è visibile», spiega Nicolas Nova, etnografo e docente alla Geneva School of Art and Design.
«La tecnologia ci ha viziati, abituandoci ad ottenere tutto subito. Così quando si verifica un intoppo, c’è un piccolo ritardo nell’arrivo di un sms o un rallentamento nel download di un file, ci sentiamo persi. E allora un piccolo rito, privo di ogni reale utilità pratica, può almeno rassicurarci». Nicolas Nova lo sa perché va a caccia di questi comportamenti bizzarri: «Qui a Ginevra, in un negozio, ho visto una donna attaccare una moneta ad una calcolatrice tascabile usando lo scotch. Le ho chiesto perché, e mi ha detto: “Sono di Taiwan, e noi lo facciamo come portafortuna”. Ogni tanto vedo qualcuno puntare il dito verso il cielo mentre usa il cellulare. “Aiuta a prendere meglio”, è la spiegazione. Come se esistesse una connessione elettromagnetica tra il braccio che regge il cellulare e l’altro puntato al cielo a mo’ di antenna. Ma c’è anche chi soltanto accarezza o scrolla il telefono pensando di migliorare la ricezione» spiega Nova. «Poi ci sono quelli che soffiano nelle porte degli smartphone, così come negli anni 90 i ragazzi soffiavano nelle cartucce gioco del Super Nintendo per scongiurare malfunzionamenti». Un’altra prova del fatto che i piccoli riti contemporanei non scompaiono insieme alle tecnologie che li hanno generati, ma si aggiornano.
Del resto, come ci ricorda lo psicologo americano Stuart Vyse, perfino il buon vecchio toccare legno, equivalente angloamericano del nostro toccare ferro, è un aggiornamento di pratiche più antiche, risalenti a quando gli antichi Celti erano convinti che negli alberi abitassero spiriti pronti ad accorrere in loro soccorso se evocati dal tocco. «Essere scaramantici è normale: non è questione di intelligenza o di istruzione» spiega Francesca Gino, docente in Scienze comportamentali alla Harvard Business School. «In un sondaggio di un paio di anni fa condotto da Vanity Fair in America, più della metà degli intervistati ha ammesso di “toccare legno”. Circa un terzo di studenti universitari intervistati in un altro sondaggio recente hanno indicato di avere superstizioni relative agli esami, ed è estremamente comune per gli atleti di qualsiasi sport fare rituali propiziatori prima delle loro gare.
La tecnologia non è diversa: non vogliamo togliere la chiavetta dal pc prima che windows ci dica che possiamo farlo perché temiamo che porti sfortuna». In realtà, spiega Francesca Gino, è un modo, seppure irrazionale, di ridurre l’incertezza sul mondo in cui viviamo.
«L’antropologo Bronisaw Malinowski amava spiegare questo fenomeno con l’esempio dei pescatori nelle Isole Trobriand. Chi tra loro pescava nella laguna interna, potendo contare sulla conoscenza del luogo, non usava pratiche superstiziose, mentre coloro che affrontavano i pericoli e l’incertezza della pesca in mare aperto svilupparono superstizioni per assicurare abbondanza di pesce», sottolinea Francesca Gino. «Queste pratiche ci danno la sensazione di poter capire, prevedere e controllare il nostro ambiente. E questo, a sua volta, conferisce benefici psicologici». A cui non vogliamo rinunciare nemmeno nell’era digitale, anche se la superstizione arriva da un passato antichissimo.
«Tipicamente le superstizioni iniziano come l’associazione di due fatti, ad esempio vedo un gatto nero per strada e poco dopo rischio di essere investito. La mente generalizza l’associazione tra questi due fatti e la trasforma in una relazione di causa- effetto che, per il superstizioso, può funzionare sempre» spiega Telmo Pievani, filosofo della scienza che ha trattato questi temi in Nati per credere (ed. Codice). «È un comportamento tipico delle prede: in tante specie animali, le prede sono particolarmente abili nell’osservare attorno a loro indizi di una potenziale minaccia e attribuire un “effetto”, come un fruscio, a una” causa” potenzialmente pericolosa, come un predatore. Parimenti, il nostro istinto superstizioso potrebbe risalire a quando i nostri antenati non dominavano ancora il mondo». Tanto, tantissimo tempo fa: quando i pitecantropi immaginati da Kubrick si radunavano affascinati attorno a un misterioso oggetto gravido di futuro che era sì rettangolare, lucido e nero, ma non aveva ancora il logo della mela.