Il suo quattordicesimo romanzo è la scusa per questo incontro: L’assassinio del commendatore fa riferimento a una scena del Don Giovanni di Mozart e a un dipinto che trova il protagonista, un ritrattista in piena crisi esistenziale. È pubblicato in due volumi (il secondo è appena stato pubblicato da Einaudi,ndt), e solo in Giappone ha venduto un milione e ottocentomila copie.
L’assassinio del commendatore comincia con un sogno inquietante: un artista deve dipingere il ritratto di un uomo senza volto. È nata da qui l’idea del libro?
«No, quel prologo l’ho aggiunto dopo. La prima cosa che ho visualizzato è stato il paesaggio.
Una casa vicina al mare, sulla cima di una montagna: se guardi davanti vedi sempre bel tempo, se guardi dietro sempre nuvoloni. Ho scritto quei paragrafi iniziali e mi sono chiesto che sarebbe successo, perché non avevo idea. Il protagonista racconta la storia della sua sposa, da cui si separa quando lei le dice che non può continuare a vivere con lui. Attraversa il Giappone in macchina, solo, stordito, senza capire che succede, finché, vari mesi dopo, un amico gli presta quella casa».
Molte delle sue storie presentano protagonisti in crisi che hanno passato la trentina. Che significato ha quell’età per lei?
«Nell’Uccello che girava le viti del mondo ho narrato la vita di un trentenne la cui quotidianità cambia quando scompaiono prima il gatto e poi la moglie. Non so perché scelgo questi protagonisti. Forse è quel taglio personale, quella ricerca di un senso in mezzo al vacillamento che mi interessa. È come se a quell’età ci rendessimo conto che quella vita è la nostra. Questo processo di appropriazione mi intriga: una persona che non è più tanto giovane, ma nemmeno vecchia. È libera e vulnerabile al tempo stesso».
Questo personaggio però non si sente molto libero, no?
«La sua crisi è radicale: dipinge ritratti, vive di questo, ma non sa qual è la sua opera. Lotta per capire che cosa vuole esprimere: è la ricerca di una definizione. Il romanzo racconta anche questo: la sua scoperta come artista, il suo stato mentale come creatore».
È mai stato in analisi?
«No, la psicanalisi non mi interessa».
Le manca qualcosa della vita prima della letteratura, all’epoca in cui lei e sua moglie gestivate un locale di jazz?
«Mi mancano l’ambiente, i musicisti. Ma ad agosto ho cominciato a condurre un programma radiofonico a Tokyo. Sono il deejay e ho recuperato gli aspetti più divertenti di quell’epoca. Scelgo la musica – rock, pop, jazz – e parlo di musica e di letteratura. Avevo dei dubbi, ma Yoko mi ha incoraggiato. "Puoi farcela. Saresti un buon deejay", mi ha detto. E me la sto godendo. Il sentimento che provo è di puro piacere».
Pubblicò il primo romanzo nel 1979, e la sua routine cambiò: smise di fare le ore piccole, cominciò a correre tutti i giorni… Le piacerebbe che anche i suoi lettori la leggessero con tutto il corpo?
[ride] «No, scrivere romanzi lunghi come i miei richiede uno sforzo sostenuto e metodico. Non è un lavoro leggero: scrivo con la sensazione fisica di dare tutto; amministro la mia energia come l’aria nelle maratone, e cerco di offrire sempre qualcosa di nuovo. Spero solo che il lettore tragga piacere dal libro: la sua parte è questa».
Lo chiedevo perché la sua narrazione chiama a raccolta tutti i sensi. C’è musica, sesso, cibo…
«Mi piacciono le cose fisiche. Se scrivo di qualcuno che beve una birra, spero che ai lettori venga voglia di bersene una. Cerco di imprimere questo aspetto nella mia letteratura perché confido nella reazione corporea come qualcosa di autentico, ingestibile, e se compare credo che significhi che la storia funziona».
Scrivere della solitudine, della violenza, della pazzia, qual è la cosa più difficile?
«Far ridere il lettore. Ridere a crepapelle. Molti giapponesi leggono i miei libri in piedi, nella metropolitana: la gente intorno li guarda, può risultare addirittura imbarazzante per loro. Però io sento di aver raggiunto il mio scopo».
Menshiki, il milionario solitario che rende omaggio a Gatsby in questo romanzo, non pensa alla paternità finché non scopre che Marie potrebbe essere sua figlia. Com’è stata la sua esperienza di questo tema?
«Non capisco».
Lei non ha figli…
«No».
Se ne pente?
[Si prende 30 secondi prima di rispondere] «No. Ma quando ho scritto il romanzo pensavo alla possibilità di aver avuto un figlio. Ho voluto immaginare che cosa sarebbe successo se, come capita al personaggio, la mia ultima fidanzata avesse avuto una bambina e io non ne avessi saputo nulla per anni. C’è una possibilità molto remota, però esiste. Scrivere romanzi è inseguire possibilità. Vedo i miei libri come un inseguimento di vite diverse. Viviamo tutti in una sorta di gabbia, la gabbia che presuppone il fatto di essere solo te stesso. Se sei uno scrittore di narrativa, puoi uscire ed essere qualcosa di diverso. È quello che faccio la maggior parte delle volte».
Fuggire?
«Vivere i miei io alternativi».
Ha un significato particolare per lei il fatto di compiere settant’anni?
«Non sento nulla di particolare, ma neppure mi pento di qualcosa. Ho commesso errori, come tutti, ma quello che è stato è stato. L’innocenza è inevitabile, in questo sono una specie di fatalista. Mi ha chiesto se mi dispiace di non aver avuto figli. Semplicemente è successo. Non posso farci nulla. Accetto quello che succede. Può essere che in questo sia diverso da altre persone. Vivo e scrivo i miei romanzi partendo da questa accettazione. È importante per me».
Accetta anche le sue paure? Cosa teme?
«Sto diventando vecchio. Non so com’è né che cosa si prova, perché è la mia prima esperienza». [Ride]
Nelle sue storie torna sull’amore e sul matrimonio. Cos’è che li rende inestinguibili?
«Non mi interessano i legami familiari, però mi interessa esplorare tutto quello che succede tra un uomo e una moglie. È una relazione speciale, forse la più importante. Non puoi scegliere i tuoi genitori o i tuoi figli, ma puoi scegliere il tuo partner, e devi essere responsabile nella scelta. Sono sposato da 47 anni con Yoko, e lei è anche la prima lettrice dei miei libri. Perché l’ho scelta? Non lo so. Ci penso spesso e ancora non so darmi una risposta».
La cultura statunitense fu decisiva per la sua generazione. Che cosa ne pensa del progetto portato avanti da Trump?
«Sono stato adolescente negli anni 60. La cultura statunitense era eccitante, sfrenata. In quel decennio successe di tutto: jazz, rock, letteratura, pop. Io ho assorbito tutto e me ne sento grato. Però la cultura degli Stati Uniti oggi non è molto stimolante. La politica mi interessa, ma scrivo narrativa. Non faccio dichiarazioni di altro genere».
(El País 2019. Traduzione di Fabio Galimberti)