«Il sonetto Pio Ottavo: “Che ffior de Papa creeno! Accidenti! …”» .
Dopo aver accennato al primo verso, si alza canticchiando, sparisce nell’altra stanza e torna con il vocabolario russo-italiano.
«Non è stato facile rendere la parola strucchione: “Uhm! cianno fatto un gran brutto strucchione de Pontefisce”. In Russia non ci sono dialetti come in Italia, bisogna attingere al popolaresco, ai proverbi, ai modi di dire. Ho reso strucchione con pugalo che vuol dire spaventapasseri”».
Ma non avranno riso solo per questo?
«Non sfuggivano le coincidenze con l’Unione sovietica».
Colpiva a segno la critica corrosiva al potere?
«Bastava sostituire al Papa un qualunque segretario generale del Pcus e il gioco era fatto. Al posto di Pio VIII si potevano benissimo immaginare Breznev o Andropov. E oggi Putin… Perfino Gogol amava questo sonetto. Fu lui a consigliarne la lettura al critico francese Sainte-Beuve quando s’incontrarono su una nave in viaggio da Civitavecchia a Marsiglia. E poi in Belli c’è la presa in giro della burocrazia, così simile a quella russa, di ieri e di oggi».
Come ha fatto a tradurlo impunemente?
«Nelle prime traduzioni su rivista ricorrevo a eufemismi per rendere le parolacce. Nei due volumi, uno del 2012 l’altro del 2015, ho invece potuto tradurre liberamente, anche se i libri sono in vendita sigillati nel cellophane».
Perché?
«Per evitare che qualcuno possa sfogliarli prima dell’acquisto. Esiste ancora in Russia una censura del costume e Belli è vietato ai minori di 18 anni, come si faceva una volta con i film».
La censura morale cela quella politica?
A questo punto Solonovich ride di cuore e inizia a recitare in italiano: «“L’annata bbona fu in ner disciassette / Allora sì, in sta piazza era un ber vive / ché li morti fioccavano a carrette…”. Nel sonetto Li bbeccamorti Belli parlava di un’epidemia di tifo che aveva colpito l’Europa, ma nominare il Diciassette come anno di una morìa ammetterà che per i lettori russi è esilarante…».
Il ruolo di traduttore l’ha protetta? In fondo poteva sempre dire: “non l’ho detto io, ma Belli”.
«Infatti venivo invidiato dai miei amici poeti e scrittori. Mi dicevano: beato te che puoi permetterti certe cose attraverso le parole degli altri!».
Come ha imparato l’italiano?
«Da ragazzo ascoltavo l’opera alla radio. Non potendo sempre parlare di ideologia e kolchoziani ogni tanto dovevano mandare un po’ di musica. Poi nel 1951 mi sono iscritto all’Istituto di lingue straniere di Mosca».
Solonovich è nato nel 1933 in Crimea, nella città di Simferopol, figlio di un medico militare trasferito lì a lavorare. Ha conosciuto e tradotto i più grandi, a cominciare da Montale e Quasimodo. Che ricordi ne ha?
«A Montale ho anche dedicato una poesia, s’intitola Traducendo Montale. Lo incontrai per la prima volta nel 1956, fu Giovanni Giudici a portarmi a casa sua a Milano».
Di che cosa parlaste?
«In realtà non mi rivolse parola, parlò solo con Giudici».
Non passava per uno troppo simpatico…
«Aveva un carattere difficile (sorride). Due anni dopo avvicinai Quasimodo. Era venuto a Mosca con una delegazione di scrittori italiani ma appena arrivato aveva avuto un infarto ed era stato ricoverato per più di tre mesi all’ospedale Botkin. Andavo a trovarlo tutti i giorni, approfittavo per consultarlo sul significato di alcune sue poesie che stavo traducendo. Avevo 25 anni e sull’ermetismo ero ancora tabula rasa».
Fu meno spigoloso di Montale?
«Un dongiovanni. Arrivò accompagnato dalla segretaria Liliana Fiandra. Quando la moglie tentò di raggiungerlo, dopo aver saputo che era malato, le fu risposto dall’ufficio visti che la consorte di Quasimodo era già a Mosca».
È vero che ha iniziato come interprete sportivo?
«Da giovane accompagnavo in Italia squadre sportive: pallanuoto, tiro a segno, pentatlon. Tutto bene fino a quando, durante un viaggio a Roma alla fine degli anni Cinquanta, ho fatto qualcosa che non è piaciuto. Mi ero allontanato dal gruppo per gironzolare da solo dentro la città e qualcuno ha fatto la spia. Per dieci anni non mi hanno più permesso di partire. Mi viene in mente una poesia di Quasimodo…».
Su Roma?
«Sulla delazione. Una poesia del 1965, Parole a una spia, in cui Quasimodo si rivolge a un poeta che faceva la spia contro i colleghi. Traducendola in russo ho preferito intitolarla A un delatore (donošik), perché la parola “spia” (Špion) nella Russia sovietica rimandava alla Cia, mentre a me interessava si capisse che si parlava più propriamente di un delatore».
Un argomento che la riguardava molto da vicino...
Sorride e risponde citando Quasimodo: « “Le spie non possono scrivere versi, lo sai, né bere il vino con gli amici / né dire parole al cuore di nessuno”».