Tuttolibri, 2 febbraio 2019
Tutta colpa del neoliberismo?
Sull’utilità o più probabilmente sull’inutilità del libro di Alberto Mingardi potrebbe essere sufficiente citare un’intervista concessa da Massimo D’Alema a questo giornale pochi giorni fa, nella quale l’ex presidente del Consiglio tira fuori l’abracadabra: tutta colpa del neoliberismo. Espressione incisa nel marmo della prima pagina del libro in questione: non c’è disastro, dall’incendio della Grenfell Tower a Londra al crollo del ponte Morandi a Genova, che non sia colpa del neoliberismo. Che, nell’accezione contemporanea, non significa un accidenti di niente e significa qualsiasi accidente, come scriveva Simone Weil delle lobby: in campagna elettorale (roba di ottant’anni fa) quando uno non sa che dire ma vuole fare colpo, dice che è tutta colpa delle lobby; nessuno sa chi siano, che faccia abbiano, esattamente quali magheggi esplodano dal loro cilindro, quali veleni iniettino nelle vene della società, insomma non si capisce che accidenti siano queste lobby ma si capisce che sono le madri di ogni accidente. Oggi, oltre alle immortali lobby, siamo al neoliberismo, e il suddetto ex premier diagnostica alla lungodegente costituzione europea «l’egemonia neoliberista», precisamente (o imprecisamente) che i globuli rossi della politica hanno ceduto ai globuli bianchi di economia e finanza – i numerini dimaieschi – come se l’anemia fosse di tempi in cui il presidente della Commissione europea era Scroodge e non Romano Prodi. Ora, questo spazio dedicato a D’Alema non è spazio sottratto a Mingardi. È proprio tutta materia di Mingardi perché anche lui – così paziente – tracollerebbe di fronte a un leader di tale intelligenza e sintomatico carisma il quale, accusato al tempo di Palazzo Chigi di neoliberismo da Fausto Bertinotti, si neodeliberizza e chiede meno vincoli di bilancio in un Paese, il nostro, con metà Pil dedicato alla spesa pubblica e un debito avviato ai duemila e 400 miliardi di euro, di modo da contrarre ulteriore debito e rifinanziare e allargare il welfare, cioè l’intervento dello Stato sulla stabilizzazione confortevole delle vite delle persone.
Questo formidabile libro – diciamo una specie di Var nella globalizzazione del vaffa al neoliberismo cornuto – sollecita qualche riflessione, e stimola qualche memoria, per esempio del Codice della vita italiana di Giuseppe Prezzolini, redatto novantotto anni fa, nel quale si legge che «l’italiano non dice mai bene di quello che fa il governo (…) però non c’è italiano il quale non affiderebbe qualunque cosa al governo e non si lagni perché il governo non pensa a tutto». Erano senz’altro più liberisti nel Seicento, quando nascevi e il resto era affidato alla tua libertà, eri libero di curarti oppure no, di studiare oppure no, se il tuo piccolo campo produceva guadagnavi, se non produceva non guadagnavi, eri persino libero di morire di fame, e insomma non c’era uno Stato che pensava alla tua salute, alla tua istruzione eccetera, uno Stato incaricato, in questa strana deriva neoliberista, pure di trovarti eventualmente un posto di lavoro e, senza eventualmente, un reddito. Per dire che oggi delle nostre esistenze nulla è affidato alla libera iniziativa ma deve esserci elargito dallo Stato, libertà sotto forma di diritti, un’alluvione di diritti che – strana libertà – non presuppongono simmetrici doveri, senza i quali è clamorosamente evidente che lo Stato sociale non funziona, altro che lo Stato neoliberista. Ed è andata a finire che, se a diritto non si aggiunge diritto, è tutta colpa del neoliberismo, ed è davvero spettacolare: dateci le libertà civili ma alla larga le libertà economiche, noi con la concorrenza non vogliamo avere niente a che fare.
Insomma, che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa, osserva Mingardi. Dov’è che le istituzioni si ritirano e lasciano libero sfogo al libero mercato? Da nessuna parte ma, riviste le nostre giornate al rallentatore, si nota il contatto: tutti a ruota di una spietata concorrenza a proposito delle tariffe telefoniche, un risparmio mensile di 0.99 euro è motivo più che sufficiente per cambiare gestore telefonico, molto più WhatsApp che sms, poiché è gratis il primo e costano i secondi, a ruota di una spietata concorrenza sugli affari da realizzare su e-Bay o Amazon, che in turboliberismo scavalcano le frontiere e polverizzano le tutele sindacali e demoliscono i negozi sotto casa, su Uber più economico di un taxi, sulla rinuncia al giornale siccome le notizie sono free online, sul catalogo mondiale della musica pop-rock-jazz a 9.99 al mese (fine dell’industria discografica), e ci muoviamo in serena agilità, ci fondiamo conti familiari che quadrano. È la famosa globalizzazione grazie alla quale venti anni fa la popolazione sotto la soglia di povertà era del 29 per cento di sei miliardi, e nel 2010 era meno del dieci per cento di sette miliardi. Poi, certo, sarà colpa del neoliberismo se con la laurea in scienze politiche mi offrono un posto da lavapiatti?