Tuttolibri, 2 febbraio 2019
Intervista a Chuck Palahniuk
Chuck Palahniuk risponde alle domande di un’intervista esattamente come è e come scrive. Asciutto, senza intenzione di compiacere, dice quello che pensa o che ha voglia di dire in quel momento. L’ironia che sfiora il sarcasmo. È così anche per Il libro di Talbott che arriva in Italia vent’anni dopo Fight Club, in cui Palahniuk, corrosivo, dissacrante, mai politicamente corretto, mette in fila tutte le paure e le teorie complottistiche o deviate della società americana, raccontando di un presente distopico in cui i governanti stanno per trascinare gli Usa in una terza guerra mondiale. Lo scopo è quello di ridimensionare, facendola morire in un conflitto lampo, la popolazione in surplus dei Millenials, maschi giovani e inquieti.
In questo scenario cominciano a circolare i messaggi sovversivi di un misterioso libretto con la copertina nero-blu: «Immagina che non ci sia Dio»; «Nessuno vuole che tu scopra il tuo vero potenziale. Il pigro non sopporta la compagnia di chi cresce vigoroso»; «Un sorriso è il tuo miglior giubbotto antiproiettile». Sono gli slogan-manifesto del carismatico Talbott Raynolds, diffusi sempre più ossessivamente da radio, tv, internet. Solo chi viene reclutato nella sua cerchia ne riceve una copia, la catena di prescelti si allunga: uomini comuni che presto passeranno all’azione per rimediare alle storture della società nel Giorno dell’Aggiustamento. A essere colpiti e uccisi, sfregiati con il taglio dell’ orecchio sinistro, saranno gli uomini della classe dirigente, docenti universitari, politici e giornalisti, indicati con nomination anonime in una «Lista» diffusa sul web. Una delle conseguenze del regolamento di conti sarà la Dichiarazione di Interdipendenza, con la divisione del Paese in tre inediti Stati e la redistribuzione della popolazione secondo criteri razziali e orientamento sessuale, bianchi, neri e una nuova California per i gay. Unica alternativa all’Inferno, la fuga in Messico. «Ho iniziato a immaginare Il libro di Talbott sei anni fa, quando ho trascorso alcuni mesi a Madrid. È stato strano guardare agli Stati Uniti standone fuori. Sembriamo dei pazzi, con così tanti americani che chiedono la delimitazione di spazi sicuri. Mi è venuto in mente: perché non riscrivere Via col vento, con una nuova guerra civile che desse origine a nuove nazioni basate sull’identità? La mia Rossella O’Hara è Shasta Sanchez, una latinoamericana che insegue il suo Ashley bianco. Come al solito anche questo mio romanzo inizia con una storia d’amore».
Amore?
«La scena da cui sono partito è quella di un giovane che attira la sua amante in case lussuose, in cui finge di entrare in maniera fraudolenta. Ma si scopre che le possiede veramente, e in quel momento lui le fa la proposta di matrimonio. Quello finale poi è un messaggio d’amore e cura per tutta l’umanità. Una donna gentile nutre un uomo affamato con un würstel fatto della sua stessa carne, calda e fumante. Un’immagine che fa venire le lacrime agli occhi, è così bella. Ho pianto mentre la scrivevo».
Ma lo ha evirato…
«Lui è il mio personaggio preferito, adoro Charlie, abbastanza da dargli il mio nome e castrarlo. Avrà mille discendenti ma nessun testicolo, scopre il suo destino ma fallisce. Una sensazione che conosco fin troppo bene».
Che collegamento c’è fra il Project Mayhem di «Fight Club» e il Giorno dell’Aggiustamento?
«Quella di Fight Club era l’idea di un percorso attraverso cui realizzarsi come individui autonomi. Il Giorno dell’Aggiustamento propone un metodo per riunire tutti quegli individui. Ma Dio non voglia che qualcuno impari qualcosa dai miei libri. Il mio mestiere non è insegnare niente. Quello era il lavoro di Stalin».
Nel la trama ci sono spunti dalla politica contemporanea e citazioni di altri scrittori. Chi ha influito sulla figura di Talbott Reynolds, col il suo piccolo libro nero-blu?
«Mi sono ispirato a Illusioni. Le avventure di Messia riluttante di Richard Bach, alle citazioni di Mao, al Mein Kampf. Molto proviene anche dal mio amore per Ira Levin, e quello non può essere spiegato. Discuterne vorrebbe dire sminuirlo. Nel contesto della narrazione ogni riferimento diventa chiaro. A questo proposito mi viene da ripensare a Fernanda Pivano, che mi ha accompagnato in tante presentazioni di libri in Italia: ogni volta ha sempre voluto andare a ballare, dopo. Fernanda non ha mai avuto bisogno di vivisezionare ogni cosa per digerirla. Lei sapeva davvero come vivere. Spero che la cultura letteraria italiana non sia morta con lei».
Uno degli effetti del Giorno dell’Aggiustamento sono gli Stati Disuniti d’America, con la nascita di Gaysia, Blacktopia e Caucasia. Da dove ha origine questa ripartizione?
«Dalla mia tendenza a rendere tutto “Warholiano”. Il mio primo impulso è sempre quello di cercare di semplificare, limitarmi a tre elementi era una priorità. Mi offra da bere e mi preparerò una risposta più completa, ma sarà comunque una bugia».
Come giudica i tribalismi della società contemporanea?
«Sono pericolosi. Ma è un pericolo positivo. Senza tribalismi rischiamo di calarci in un noioso oscuramento, di una banale uniformità. È questo che vogliamo per i nostri figli? Sarebbe una crudeltà».
Perché coltiva questo gusto per l’estremo?
«Accenda la televisione e guardi un mezzo secolo di banalità, poi legga l’equivalente quantità di narrativa noiosa con tutte le sue semplici trame e prose. Si renderà conto che finirà i suoi giorni senza mai avere davvero esplorato una storia. È un peccato, morire senza avere intravisto quanto sia sorprendente la vita».
Perché per scrivere questo romanzo ha abbandonato il collettivo di autori con cui da anni si ritrovava per leggere in anteprima nuove pagine?
«Mi sono reso conto che i miei colleghi e io avevamo iniziato a scrivere per compiacerci l’un l’altro. Un assillo che ha reso il nostro lavoro meno vitale. Come mi disse un giorno uno dei miei autori preferiti, Joy Williams: “Non scrivi per fare amicizia”. Quindi mi sono gentilmente ritirato dal gruppo».
Stava per autopubblicare il libro, perché è stato così difficile trovare un editore?
«L’editoria tradizionale opera con enormi costi e deve scegliere libri che piacciano facilmente a milioni di lettori, i miei richiedono decenni per costruirsi un pubblico. Fight Club ha venduto poche migliaia di copie all’inizio e non è stato un successo fino a quando non è uscito in dvd il film di David Fincher. Anche al cinema era andato malissimo, con incassi bassissimi e critiche feroci, come quella in cui si diceva che, probabilmente, avrebbe trovato uno spettatore solo all’inferno».
Con la sua visione di un’America post apocalittica, come è stato accolto?
«Non leggo le recensioni dei miei libri, l’unica che ho visto è quella del The Daily Stormer, un sito web che ridicolizza costantemente i gay, le donne e le minoranze razziali. Esalta il fascismo e spera che il virus dell’Ebola spazzi via l’Africa. Ha stroncato Il libro di Talbott. con un commento meschino. Negli Stati Uniti oggi non apprezzare il romanzo significa essere un neo-nazista, razzista, omofobo e misogino. Quindi sono dalla parte giusta della storia. E faccio il tifo per Hillary nel 2020!».
Mentre in Italia esce «Il libro di Talbott», negli Usa arriva la graphic novel «Fight Club 3». Altri progetti?
«Mi faccia pensare. Probabilmente lavare la biancheria, piegarla, metterla via. Scrivere merda. Pagare le tasse. Scrivere merda. Spararmi. Poi sarò con Fernanda Pivano e Ira Levin che mi amano davvero: questo sarà il paradiso. E una volta lì, pregherò per l’Italia».