La Stampa, 2 febbraio 2019
Intervista a Raffaele Pisu
Le domande, in verità, vorrebbe farle lui, anche quelle che, in genere, si evitano: «Signora, ma lei quanti anni ha?» e poi «ma c’è qualcuno nella sua vita? Insomma, un amore ce l’ha?». La simpatia non si costruisce a tavolino, e nemmeno il dono di saper stabilire in un attimo il contatto diretto con le persone. Per questo Raffaele Pisu, 94 anni, bolognese, è un prodigio naturale, un talento dalla nascita, uno che intervalla le parole con grandi risate, e guarda il tempo con un’allegria beffarda, pronto a immaginare il dopo, senza ombra di rimpianti, ma, anzi, con diversi progetti: «Quando mi tornano in mente i colleghi che non ci sono più, Chiari, Corrado, Bramieri, Tognazzi, penso che lassù di me si siano dimenticati, e non mi vengano a prendere».
Di sicuro il pubblico la ricorda benissimo. A iniziare dalla prova nel film di Giuseppe De Santis Italiani brava gente. Che ricordo ha di quell’esperienza?
«Le devo dire una cosa, che mi fa tanto ridere. È da allora che i critici, parlando di me in quel film, scrivono sempre la stessa cosa, “Raffaele Pisu drammatico e sorprendente”. Bravo mai, ma sorprendente sì. Ho un ricordo bellissimo di quelle riprese, la Russia è un Paese fantastico, dove noi italiani siamo molto amati. Secondo me perchè è rimasta viva la memoria della guerra, il paragone tra i nostri soldati e i tedeschi. Loro se si avvicinava un bambino affamato gli davano un calcio nel sedere, noi spezzavamo in due la galletta e gliela offrivamo. Girammo con 40 gradi sottozero, e senza l’aiuto dei computer, come si usa oggi. Fu un peccato, perché il film uscì male, senza pubblicità, adesso però è stato restaurato, dalla Cineteca Nazionale, con l’aiuto di mio figlio Paolo Rosi Pisu, che fa il produttore. Ne sono molto felice».
Su Paolo c’è una storia che sembra un film. Me la racconta?
«Ho scoperto di essere suo padre 4 anni fa. Non sapevo nulla, se fossi stato informato prima, l’avrei accolto subito, a braccia aperte, come ho fatto adesso. Avevo avuto un’avventura a Riccione, la madre di Paolo restò incinta, ma non mi disse niente. Sul letto di morte ha raccontato tutto al figlio. Quando Paolo è venuto da me, gli ho chiesto: “Ma perchè non sei venuto prima?”».
L’altro suo figlio, Antonio, fa il regista e l’ha diretta in Nobili bugie. Contento che abbia scelto questo mestiere?
«Quando Antonio mi disse che lavoro voleva fare, mi venne un colpo, gli avrei voluto rispondere: “Ma come, c’è una bella officina meccanica che ti aspetta”, poi, però, ha dimostrato di avere qualità, ha trovato la sua strada senza il mio aiuto».
Il varietà le ha dato enormi soddisfazioni. E anche un alter-ego, di nome Provolino.
«È stato uno dei pochi “attori” italiani che hanno avuto successo all’estero. Ovunque. Tranne che in Argentina, non apprezzavano quel tipo di spirito cattivello, il tormentone: “Boccaccia mia statti zitta”. Ho capito dopo il perché, erano abituati a Topo Gigio, Provolino fu uno choc».
Continua a guardare la tv?
«Tv? Non tanto, in tv parlano fra loro seduti intorno a un tavolo, se trovano uno spettacolo che funziona lo ripetono per 10 anni, e poi lavorano sempre gli stessi, i soliti 3 o 4, e fanno troppo. La radio, quella sì, la ascolto sempre».
Tra i tanti compagni di lavoro, qual è quello con cui si è trovato meglio?
«Nino Manfredi, eravamo molto amici, abbiamo fatto teatro, con Wanda Osiris, un peccato che se ne sia andato».
Con chi, del suo ambiente, si sente ancora oggi?
«Con Gianni Morandi, mi vuole bene, mi chiama Zio Lele come nei “musicarelli” che abbiamo girato insieme, mi telefona spesso, facciamo lunghe chiacchierate. Con lui e con Lucio Dalla avevamo pensato di metter su uno spettacolo, titolo: “I Biascianot”, come a Bologna si chiamano quelli che se ne vanno in giro di notte parlando da soli. Non ce l’hanno fatto fare, colpa del solito dirigente Rai...».
Ha recitato con Paolo Sorrentino nelleConseguenze dell’amore, come è andata?
«Un grande. È venuto a vedermi a teatro a Torino, e mi ha proposto una parte. È un perfezionista, lavora come Visconti. Il cinema si fa nella confusione, lui, invece, ti avverte quando arriva la tua scena e ti chiede di prepararti. Poi ti lascia fare e, se gli piaci, non impone le sue idee».
Luca Barbareschi l’ha diretta nelTrasformista, come la scelse?
«Ci eravamo incontrati a Roma, ero in disgrazia, non lavoravo più. Capì che attraversavo un brutto momento e mi fece lavorare. Luca mi piace come essere umano, è uno che aiuta gli altri, a differenza di tanti che, invece, si fanno solo i fatti loro».
Di recente è stato ospite del Presidente Mattarella. Di che cosa avete parlato?
«Voleva conoscermi, mi ha colpito la sua tenerezza, il fatto che mi desse il braccio e mi accompagnasse alla poltrona. Gli ho detto: “Ma lei qui che ci sta a fare? Ma venga via, ce ne andiamo a fare una bella crociera”. Mi ha risposto che non poteva, allora gli ho chiesto di farmi senatore a vita, si è messo a ridere, e io gli ho detto: “Allora lo vede che non può fare niente, che è prigioniero, anche da Presidente?”».
C’è qualcosa che avrebbe voluto fare e non ha fatto?
«Mi sarebbe piaciuto partecipare allo sbarco dei Mille, insieme a Garibaldi, ma era troppo presto. È incredibile, ma non c’ero ancora».