Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2019
I 60 miliardi di Gheddafi sparsi nel mondo
«M ad Dog». Così era definito dagli Stati Uniti. È stato tutto e il contrario di tutto. Ha cercato di unire i Paesi africani e nel contempo dichiarava loro guerra. Ha finanziato i movimenti terroristici di tutto il mondo, è stato il mandante di attentati e ha ordito complotti divenendo un pilastro dell’asse del male per gli americani che hanno bombardato la sua residenza a Tripoli per poi, qualche anno più tardi, considerarlo un indispensabile alleato nella guerra ad Al Qaida. Non si fidava di nessuno e alla meritocrazia preferiva la cieca fedeltà e obbedienza. In un solo campo il leader libico Muammar Gheddafi si è sempre dimostrato coerente circondandosi di persone di eccellenza nella gestione dei soldi. Soprattutto i suoi.
Pochi mesi dopo l’inizio della primavera libica, nel febbraio del 2011, con Gheddafi che ancora controllava la Tripolitania e combatteva il governo di transizione insediatosi in Cirenaica, la comunità internazionale cominciò a cercare di capire quanti fossero e dove fossero gli investimenti di Gheddafi. Certamente vi erano enormi quantità di denaro, di oro, di diamanti disseminate soprattutto in Paesi africani e gestite dal banchiere di fiducia di Gheddafi, Bashir Saleh, arrestato dopo la morte del Colonnello e poi sparito nel nulla. Ricercato da molti Paesi, deve spiegare, tra l’altro, che fine ha fatto il ricavato della vendita di parte delle riserve auree della Libia, ordinata da Gheddafi poco prima di morire.
Ma non è solo questo che preoccupa la comunità internazionale. Parte dei ricchi proventi dalla vendita di petrolio e gas sono stati utilizzati da Gheddafi per costituire e finanziare la Lia, la Libyan investment authority, il fondo sovrano libico che ai tempi della dittatura non era affatto al servizio dello Stato, bensì di Gheddafi e del suo clan che lo utilizzavano per fini ben poco istituzionali. Il fondo era quanto di più opaco vi potesse essere. Quanto e dove aveva investito era noto a ben pochi. E questi pochi o sono morti o non sono molto propensi a parlare.
Dopo la rivoluzione, le Nazioni Unite hanno dunque cercato di ricostruire l’ammontare e la collocazione del denaro a disposizione della Lia. Che, oggi, tra investimenti e depositi liquidi, può contare circa su circa 60 miliardi di dollari. Alcuni affermano che 20 miliardi mancherebbero ancora all’appello. Gheddafi era oculato: investiva a lungo termine in società sane e strategiche. In Italia, tramite la Lia e la Banca centrale libica, il suo governo era il primo azionista di UniCredit e aveva importanti partecipazioni in Fiat (poi vendute), Finmeccanica-Leonardo ed Eni. E il discorso vale anche per altri Paesi europei. Nel Regno Unito, ad esempio, deteneva una significativa partecipazione nel gruppo Pearson, del quale hanno fatto parte fino al 2015 il quotidiano Financial Times e il settimanale The Economist.
L’Onu nel 2011 si è affrettata a congelare conti e investimenti della Lia. Nel pieno di una quasi guerra civile non era certo il caso di lasciare tutti quei soldi e investimenti in società strategiche in mano al clan di Gheddafi e ai suoi prestanome.
Otto anni più tardi, i provvedimenti delle Nazioni Unite sono ancora in vigore. Troppo sensibili le società, troppi soldi in ballo e troppa confusione nel panorama politico libico suggeriscono di lasciare tutto cosi com’è. Cioè congelato. Ma le cose non sono così semplici. In primo luogo, cresce il risentimento dei libici, i quali affermano che non si capisce perché uno Stato sovrano con un governo riconosciuto dalla comunità internazionale non possa disporre come meglio crede del proprio denaro. Vero è che il governo di Fayez al-Sarraj non ha mai chiesto la totale rimozione delle sanzioni, conscio che la situazione politica interna non consentirebbe una gestione serena, per così dire, di tale massa di denaro e di partecipazioni. Ma regna la confusione.
È di poco tempo fa l’inchiesta di un settimanale belga secondo il quale 10 miliardi di euro sarebbero letteralmente spariti da un conto della Lia aperto in Belgio. È dovuto intervenire il ministro belga delle Finanze per cercare di spiegare la situazione: il conto era stato legittimamente movimentato perché in realtà dividendi e interessi sui depositi non sono congelati e dunque rientrano nella piena disponibilità delle istituzioni libiche.
Fine della storia? Non proprio, perché secondo l’ultimo rapporto del panel delle Nazioni Unite sulla Libia anche questi soldi dovrebbero essere bloccati contrariamente a quanto si era sempre pensato. Insomma regna l’incertezza normativa, complicata dal fatto che sono in molti in Libia a pretendere di essere i legittimi controllanti della Lia: il Presidential council di al-Sarraj, esponenti del vecchio governo di Tripoli, rappresentanti delle istituzioni insediate nella Cirenaica. È capitato che alle assemblee delle società partecipate dalla Lia si siano iscritti più rappresentanti. Vi è la tentazione di lasciare tutto com’è, ma nel frattempo i soldi non arrivano in Libia e non si sa bene come siano amministrati.