Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2019
Quanto hanno speso per capitalizzarsi le banche negli ultimi dieci anni
Settantaquattro miliardi di euro per salvare il sistema finanziario italiano. La cifra calcolata per Il Sole 24 Ore da R&S Mediobanca è di sicuro effetto e potrà apparire ad alcuni forse esagerata, ad altri purtroppo provvisoria, ma ha il pregio dell’ufficialità: si tratta dell’ammontare complessivo di aumenti di capitale a pagamento che le banche del nostro Paese hanno effettuato negli ultimi 10 anni. Una somma rilevante, che i non addetti ai lavori potrebbero pensare essere stata «bruciata» nel tempo dagli istituti di credito.
La loro capitalizzazione di Borsa si è in fin dei conti ridotta dai 98,3 miliardi di fine 2008 ai poco più di 90 miliardi attuali (-8,6%, -7,5% se si tiene conto di quanti nel frattempo hanno abbandonato il mercato) mentre nello stesso periodo il listino principale di Milano ha nel complesso invece aumentato il proprio valore del 24,3 per cento. E anche quando si considera il complesso dei mezzi propri del patrimonio regolamentare delle banche italiane si può apprezzare sì un incremento (da 137,8 a 158 miliardi di fine 2017, +14,7%), che tuttavia riflette soltanto in parte il denaro impiegato per le ricapitalizzazioni nel frattempo effettuate.
Nel confrontare le banche di oggi con quelle di un tempo non si può però non tenere conto delle vicende del decennio horribilis, per il credito europeo in generale, e per quello italiano in particolare: le crescenti richieste regolamentari post-crisi finanziaria, comuni alle concorrenti continentali, e il caso del tutto specifico del nostro Paese legato ai crediti in sofferenza. Senza quell’ammontare di capitale raccolto sul mercato – che per il 70% del valore è legato alle operazioni di UniCredit (27,5 miliardi in 10 anni) e Mps (24,3 miliardi) – sarebbe stato davvero impossibile fare fronte a svalutazioni per avviamenti (un retaggio delle operazioni di consolidamento del settore condotte a prezzi evidentemente eccessivi nel decennio precedente) che sono costate 50 miliardi e soprattutto a rettifiche sui crediti per una cifra che sfiora i 180 miliardi.
Il legame fra queste ultime e gli interventi della vigilanza, che si sono intensificati in seguito alla bufera Lehman e poi anche come conseguenza della crisi del debito, è immediato quando si nota che la gran parte delle svalutazioni (quasi 53 miliardi) è avvenuta fra il 2013 e il 2014, nel momento cioè in cui si sono dovuti recepire i risultati dell’asset quality review della Bce e degli stress test targati Eba. Altrettanto evidente nei dati forniti da R&S Mediobanca è il collegamento fra le ricapitalizzazioni e le pulizie effettuate nei bilanci. Lo dimostra per esempio il maxi-aumento da 13 miliardi portato a termine nel 2017 da UniCredit, che segue idealmente le rettifiche su crediti effettuate dall’istituto di credito nell’esercizio precedente, legate per 3,6 miliardi all’operazione Fino (cessione di sofferenze lorde per 17,7 miliardi) e per altri 4,5 miliardi a Porto (incremento del grado di copertura sulle sofferenze e inadempienze probabili del portafoglio crediti italiano): due interventi che insieme avevano esercitato un impatto sui ratio patrimoniali di 223 punti base.
Difficile quindi per il settore sopravvivere senza quei 74 miliardi ricordati all’inizio, e neppure senza i 60 miliardi di bond subordinati emessi dalle banche italiane nel corso di questo lasso di tempo e che sono serviti, almeno fino all’avvento di Basilea 3, a migliorare i requisiti patrimoniali. L’altra faccia della somministrazione di una simile cura da cavallo la si può in effetti apprezzare nel momento in cui si considera che lo scorso ottobre la montagna di sofferenze lorde si era ridotta in Italia del 40% rispetto ai picchi del 2014 (158,4 miliardi da 259,3 miliardi) e praticamente dimezzata se si fanno i conti al netto delle coperture (70,1 miliardi da 140,7 miliardi). E anche quando si confronta il livello medio del coefficiente patrimoniale Core Tier 1 di fine 2009 (7,4%) con quello attuale (12,6%): viste sotto questa lente le banche italiane non appaiono così diverse dalle rivali europee. La convergenza, come si è visto, è costata una fortuna, che a maggior ragione oggi – in un contesto economico di nuovo complesso – occorre non gettare al vento.