Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  febbraio 01 Venerdì calendario

Nadia Fusini ricorda Beniamino Placido

«È arrivato Beniamino». Bastava l’annuncio e in redazione cominciava una festa mobile. Perfino il baracchino al centro di Piazza Indipendenza, oggi rispettabile caffè ma allora un chiosco tra aiuole spelacchiate, si trasformava in casa delle meraviglie dove niente era prevedibile. Perché "Zio Ben" era fatto così: sterminata sapienza in un corpo da folletto dispettoso. Generoso. Fulminante. Imprendibile. Talmente umano e intelligente da sembrare d’un altro mondo, quello della fantasia e della speranza. Oggi avrebbe compiuto novant’anni. E noi lo ricordiamo con la testimonianza di Nadia Fusini, scrittrice e anglista insigne, a lungo sua amatissima compagna e madre della loro Barbara. «Sì, Beniamino era un trasformista, un mago che reinventava le cose e le persone.Capace di fare della vita un continuo divertimento».
L’hai conosciuto appena uscita dal liceo.
«In realtà ancora prima perché era il marito di Anna Amendola, una straordinaria professoressa che aveva portato la letteratura americana in una piccola scuola di Orbetello. Quando arrivai a Roma per l’università, Anna mi fece rincontrare Beniamino. Nel frattempo si erano separati».
Così cominciò la vostra storia d’amore.
«Io ero molto giovane, lui 17 anni più di me. Ed ero come incantata dalla sua infinita cultura. Bastava evocare un tema o una questione che Beniamino aveva pronto un libriccino per me. Mi ha letteralmente nutrito di letture buonissime, cibo che non avevo mai assaggiato in casa mia. E si è preso cura di me, trasmettendomi la felicità della vita insieme».
Per questo hai scritto che ti ha fatto da madre oltre che da padre.
«Sì, era prodigo di sé e della sua intelligenza. Non aveva del paterno l’autoritarismo o l’imposizione dall’alto di un modello. Questa è stata anche la sua cifra intellettuale, esercitata nei seminari universitari e nel suo lavoro su Repubblica. Non è mai stato l’erudito sussiegoso, ma sapeva condividere la gioia della conoscenza».
È stato un maestro nel mescolare alto e basso, ma in lui non era né solo divertissement né operazione corriva.
«In fondo Beniamino si poneva sempre delle questioni. E ne cercava la chiave senza nessuna supponenza verso la cultura di massa. Prendi il suo libro Le due schiavitù, costruito su letteratura alta e bassa: anche un romanzo come La capanna dello zio Tom può servire a denunciare un problema politico e sociale. L’importante è che la lettura sia sempre un esercizio di coscienza. In lui avvertivo un forte elemento etico».
Eugenio Scalfari racconta che quando gli propose la critica televisiva lui fu sedotto dall’idea di parlare a milioni di spettatori e non più solo a una élite colta.
«Sì, lui credeva che la cultura si potesse diffondere alle masse. Ci ha creduto fino in fondo, anche attraverso le serate televisive. Dietro di lui c’era il Partito d’Azione. C’era Giustino Fortunato. E c’era la dimensione di chi parte svantaggiato – un padre che muore molto presto, una madre che resta sola con cinque figli, una grande povertà – ma non reagisce mai con il rancore e il risentimento. Ti colpiva anche per questo: la capacità di trasformare esperienze molto dure, che avrebbero potuto sopravvivere come tumori velenosi, in occasioni di conoscenza della vita. E quindi di crescita personale».
Secondo Giovannino Russo la sua passione per la letteratura americana nasceva dalla sua radice meridionale e dal suo rapporto sentimentale con il sogno dei migranti.
«Lo penso anche io. Quando a vent’anni aspettai Barbara, Beniamino mi portò a Rionero in Vulture a conoscere le zie e gli zii. Alcuni erano emigrati negli Stati Uniti e poi tornati. Ben non c’entrava più niente con quel mondo di piccolissima borghesia meridionale, ma non ho mai avvertito in lui né distanza né vergogna, solo un autentico rispetto. E ha mantenuto fino alla fine il suo accento».
Quando vi siete conosciuti era un alto funzionario della Camera.
«Sì, probabilmente sarebbe diventato segretario generale se io non l’avessi portato da un’altra parte. È l’unico merito che mi riconosco: averlo aiutato a trovare la sua strada. E qui devo ricordare il suo coraggio. Perché Beniamino si dimise da Montecitorio - lasciando onori e riconoscimenti sociali - per venire a fare il Signor Nessuno ad Harvard. Passammo un anno sabbatico tra la migliore intelligenza di quella università senza che lui potesse rivendicare alcun posto nel mondo. E finiva per conquistare tutti per sapienza e ironia».
Poi Enzo Golino lo portò nella nascente Repubblica. E Ben è diventato quella figura irripetibile che è rimasta nella testa e nel cuore di tanti lettori. Che cos’era per lui l’ironia?
«Era la capacità di rovesciare ogni aspetto della vita. Lo fece anche con la sua stessa identità: non era bello e non era della classe giusta, ma riuscì a trasformare lo svantaggio in fascino. E poi era perfido. Sapeva cogliere immediatamente il lato debole delle persone. Lo faceva anche con me, pur amandomi tanto. E lo faceva con gli estranei. Barbara non poteva invitare la sua amichetta Beatrice perché a casa nostra diventava Beatroce. Ma non c’era mai cattiveria».
Tu lo descrivi come un Puck, Ariel, spirito dell’aria. Ma dietro questa leggerezza si percepiva inquietudine.
«Beniamino si interrogava molto sul bene e sul male, sulla giustizia e l’ingiustizia. Ed era inquietato dalla presenza del torto e dell’errore. Aveva forme di ostinato rigore: ci proibiva di comprare anche una spilla dalla stilista inglese che sfruttava il lavoro minorile in India».
Aveva una caratteristica speciale: era molto socievole, ma il suo corpo "da folletto sradicato" – come lo descrive Cacciari – restituiva "una solitudine invincibile".
«Amava molto stare in compagnia, ma in fondo era una persona ritirata. E anche quando stavamo insieme – e stavamo tanto insieme – sentivo che questo essere in due permetteva a entrambi di custodire ciascuno la propria solitudine. Ma sai come la superava? Donando all’altro».
Donava a tutti anche in redazione. Un raccontino, una battuta. Ma lo faceva con una grazia particolare, come se ti sfiorasse, forse per non darti il tempo di avvertire la sua infelicità.
«Beniamino ha avuto una vita complicata sia sul piano esistenziale che sentimentale – penso alla perdita d’un fratello molto amato - ma agiva in lui un profondo pudore. Sapeva ascoltare per ore, ma la sua infelicità non l’ha mai esibita, se non attraverso improvvisi furori».
Non s’è mai rivolto a uno psicoanalista?
«Prima di conoscermi era stato nello studio di un grande nome della psicoanalisi romana.
L’analista gli chiese che ci faceva con l’ombrello tra le mani. "Glielo vorrei spaccare sulla testa!", fu la sua risposta. E con questo l’analisi finì. Però Beniamino credeva nel potere formativo e anche riparativo della conoscenza. In fondo lui s’è curato lavorando. E in tutte le sue piccole opere c’era sempre un elemento creativo: le invenzioni per la Tv, gli innumerevoli articoli per Repubblica, anche il Salone del Libro. Niente era funzionale, e tutto sorprendente».
Una volta scrisse alle ragazze di "Repubblica" una spiritosissima lettera con alcuni consigli sentimentali. E concludeva con Scott Fitzgerald: "I talk with the authority of failure».
«Il fallimento era nei fatti: prima con Anna, poi con me. Ma io credo che l’abbia superato con l’amore per nostra figlia Barbara, che è stata l’unica donna della sua vita. E lei è stata bravissima nel restituire al padre il dono che aveva ricevuto, permettendogli di morire a Cambridge, vicino a lei e ai suoi bambini, in quel mondo e in quella cultura che lui aveva scelto. E poi il nostro legame d’affetto non si è mai esaurito. Fu capace di creare un rapporto d’amicizia con Tony Tanner, lo studioso inglese di cui mi ero innamorata. E ha voluto bene al mio compagno Franco Marcoaldi, che l’ha amato molto. Siamo stati tutti uniti, fino alla fine».
A un certo punto non lo vedemmo più. Sapeva stare vicino agli amici nei momenti più cupi. Ma nel suo momento cupo preferì ritirarsi.
«Era difficile mostrarsi in quello stato: ferito nella parola e nel movimento, lui che era stato il mago del gioco verbale e del wit. Però non bisogna immaginarlo né patetico né malinconico, perché Beniamino è riuscito ad accettare la malattia con la serenità di chi non si è mai sentito figlio del privilegio. Forse è stato aiutato anche dalle sue vaste letture bibliche, nella ricerca di un senso da dare all’esperienza dell’uomo comune».
Zio Ben ci avrebbe impedito di chiudere in tristezza. Prima hai detto che come un mago sapeva trasformare anche gli aspetti ordinari della vita.
«Si divertiva da pazzi a fare shopping con noi, seduto da un canto con uno dei suoi libriccini in russo o tedesco o in un’altra delle sue tante lingue. Ma un pomeriggio da Liberty, immenso magazzino londinese di tessuti, ci perdemmo. Barbara fece fare l’annuncio, ma niente. Allora ebbi un’idea. Andammo all’ufficio oggetti smarriti e lo trovammo immobile sulla sedia, un’espressione serafica sul viso. Ben s’era catalogato come un oggetto smarrito. Era il suo modo geniale di scansare la noia».