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 2019  febbraio 01 Venerdì calendario

Gli artisti dipingono il quadro della situazione

Se Degas parla, perché De Grandi dovrebbe tacere? Se i pittori francesi o francesizzati del passato continuamente ci parlano, loquacissimi, attraverso ottimi libri spesso Adelphi e spesso in classifica (penso per l’appunto al fresco di stampa Degas parla di Daniel Halévy, a Renoir, mio padre di Jean Renoir, alle lettere di van Gogh, eccetera), perché i pensieri degli artisti italiani del presente devono essere costantemente ignorati? Se compito dell’arte è dare «eternità all’effimero», come affermò Andrea Emo, perché ci attira tanto chi ha eternato la Parigi del 1883 e snobbiamo chi sta fissando la Milano o la Roma del 2019? Il tempo in cui viviamo non ci riguarda? E chi lo raffigura non ci interessa?
In prossimità della bolognese Arte Fiera, la più alta concentrazione di pittura fresca nazionale, ho posto ad alcuni artisti nostri alcune delle domande che Halévy poneva a Degas, quelle riferite ai temi che ancora li perseguitano, ossia le aste, il mercato, il rapporto col pubblico, la critica, l’accademia... Comincio con Francesco De Grandi per motivi biecamente alfabetici, perché fra i migliori pittori odierni ha il cognome più simile a quello dell’antico maestro. Mi manderà a quel paese, come faceva Degas che ai giornalisti chiedeva di essere lasciato in pace, tanto l’arte è un mistero e non c’è nulla da dire? No, non ci sono più gli artisti misantropi di una volta, De Grandi si dimostra disponibile: «Domandare è lecito, rispondere è cortesia». Allora gli chiedo se anche lui, come l’autore della Lezione di danza, invia maledizioni ai collezionisti che vendono i suoi quadri all’asta col rischio di farne cadere il prezzo: «No, sono una persona mite. E comunque anche per i pittori, specie per i pittori, il tempo è galantuomo». In effetti la fama di Degas non sembra sia stata minimamente danneggiata dalle aste tanto odiate. Che però continuano a terrorizzare. «Sono cose che non fanno dormire la notte» mi dice molto onestamente il muralista 108. «Un’opera invenduta in asta può rappresentare un rischio per la carriera» spiega lo scultore Fabio Viale. Mentre Nicola Samorì ne fa una violazione morale: «Vedere un lavoro all’asta significa che si è rotto il patto fra il collezionista e l’opera». Ricordo a tutti le precise parole con cui il grande pittore trafisse un collezionista fedifrago: «Non vi stringerò la mano. Comunque la vostra vendita fallirà. Avete perso la nostra stima, e non ci guadagnerete neanche». Ester Grossi ammira il piglio ma non sarebbe capace di fare altrettanto: «Le nuove generazioni di artisti (mi ci metto in mezzo anche io) non hanno questo coraggio, hanno quasi tutti paura di esporsi». Giovanni Gasparro la prende con filosofia o forse, vista la sua specializzazione in arte sacra, con religione: «Non è nella mia indole assumere toni così impetuosi e collerici. Quando mi separo dalle mie opere sono cosciente che resteranno alla mercé del collezionista o del committente ed è implicito che possa volersene disfare, col tempo. Talvolta anche solo per ristrettezze economiche e quindi non posso biasimarlo. Degas in questo peccava d’orgoglio».
Era davvero orgoglioso, costui, quando disprezzava critici e giornalisti, definendoli «letterastri» e ritenendo di non avere bisogno di loro. Davanti ai capolavori di Degas, conferma Luca Pignatelli, così come a quelli di Leonardo o di van Gogh, «il tuo cervello comincia a funzionare indipendentemente da qualsiasi testo o teorizzazione». Ma in altri casi pensatori come Berenson e Longhi oppure, tra i viventi, Agnes Heller e Didi-Huberman, risultano illuminanti. «Purtroppo gli scritti dei critici, anziché illuminare, a volte rabbuiano». Ed era respingente, Degas, quando, rispondendo al biografo Halévy teorizzava un’arte elitaria, lontana dalle masse che allora preferivano gli angioletti melensi di Bouguereau o le carnose schiave orientali di Victor Giraud. Oggi Enrico Robusti si dimostra ancor più refrattario alle lusinghe della facilità: «Il mio rapporto con l’arte è una faccenda personale tra me e la tela. Niente mi aspetto, niente mi può fermare». Sergio Padovani ha trovato una formula efficace: «Penso che bisogna dipingere per pochi e arrivare a tanti, tantissimi». Mentre Nicola Verlato di élite non vuole sentir parlare: «Sono in totale disaccordo, l’arte dev’essere esattamente per tutti». L’antielitismo del fresco vincitore del Premio Eccellenti Pittori-Brazzale è coerente col suo antiaccademismo. Che però, siccome il mondo dell’arte si è ribaltato (l’accademia che nell’Ottocento insegnava il bello oggi insegna il brutto), appare molto diverso dall’antiaccademismo degli impressionisti: «Paradossalmente oggi l’unico modo di essere antiaccademici è di recuperare l’accademismo contro cui Degas si scagliava, e molti lo stanno facendo».
Possibile che ci sia nell’aria voglia di Bouguereau? Magari come reazione all’onnipresente e stantio Duchamp? «Si dovrebbe cominciare a sfatare il preteso antiaccademismo delle avanguardie: le avanguardie sono state fin dall’inizio una forma di totale accademismo». Tommaso Ottieri, che così come 108, Padovani, Robusti ed Ester Grossi l’accademia di belle arti non l’ha fatta, trova che questa istituzione sia colpevole di «insegnare una contemporaneità cristallizzata. Questo la condanna a rincorrere formule già sorpassate, a fornire soprattutto pregiudizi verso determinati mezzi espressivi». Che sono, lo esplicito per i non addetti ai lavori, precisamente la pittura e la scultura (sì, in Italia le accademie di belle arti osteggiano le due più belle arti...). Samorì saggiamente non nutre speranza alcuna: «La natura dell’accademia è offrire una formazione accademica, allineata al gusto corrente. In questo senso non è mutata per nulla e sta svolgendo un egregio lavoro anche oggi, considerando le indistinguibili prove dei giovani che escono dalle aule». Samorì l’accademia l’ha fatta ma dal conformismo accademico si è liberato presto. Come Degas che abbandonò le lezioni dell’École des Beaux-Arts dopo nemmeno sei mesi.