il Giornale, 1 febbraio 2019
Sono le spose jihadiste i nuovi soldati del terrore
«Mi avete visto tutti come una povera donna musulmana oppressa. Sono un ingegnere. Sono una jihadista». Sono le battute che recita l’apparentemente mansueta Nadia nella celeberrima serie televisiva britannica in onda sulla BBC. Bodyguard è la serie più vista di sempre in Gran Bretagna, e racconta, con protagonista un veterano della guerra dell’Afghanistan e ufficiale di polizia, proprio il Paese di oggi tra politica, intelligence, minacce di terrorismo e jihadiste. Perché la Londra odierna è anche la capitale delle donne che sposano la causa di Maometto fino alla dimensione militare, delle «spose jihadiste». Sebbene, poi, si tratti di una definizione fallace quella utilizzata per connotare le donne estremiste islamiche. Come se si trattasse sempre, quando si parla di donne musulmane che decidono di abbracciare il jihad, di vittime di una coercizione tutta maschile. Quando una donna islamica sceglie di abbracciare un kalasnikov e combattere in prima linea in niqab – come quella ripresa a febbraio in Siria -, non si è in presenza di un lavaggio del cervello. Ma solo di una donna islamica che ha sposato una religione che è un progetto politico. In cerca di vendetta per la sua fede e per l’onore delle sue sorelle imprigionate dai curdi apostati, come nel caso della protagonista del sopracitato video.
L’intelligence britannica da tempo denuncia che è un rischio banale quello di dipingere come sprovvedute o ignoranti le donne islamiche, anche quando non brandiscono un Ak-47. Oggi si ritiene che siano centinaia le «figlie di Allah» che hanno viaggiato dall’Europa ai territori dell’Isis in Siria e Iraq da quando il gruppo terroristico ha dichiarato il suo «califfato» nel 2014, e sono diverse quelle che sono diventate poi reclutatrici. Dal rapporto condotto dal Rusi (Royal United Services Institute for Defense and Security Studies) emerge che le jihadiste «cercano deliberatamente di sfidare le norme di genere imposte dall’Occidente e trovano nell’islam una nuova identità per se stesse». E sono donne le protagoniste degli ultimi tentativi di attentati terroristici: la palma è al Regno Unito dove quest’anno è stata arrestata la prima cellula jihadista tutta al femminile. È la storia di Safaa Boular che aveva appena 16 anni quando ha iniziato a pianificare un attentato al British Museum, passando poi il testimone a sua sorella e sua madre, dopo essere stata incarcerata per aver tentato di raggiungere la Siria. Il giudice che l’ha condannata alla galera ha detto che non vi era alcuna prova di affermazioni da parte della difesa, secondo cui la Boular fosse stata costretta o non in preda ad una follia che non avesse nulla a che fare con l’essere musulmani: «È chiaro che sapeva quello che stava facendo».
Lo studio ha rivelato che le donne che decidono di farsi jihadiste lo fanno in nome di un radicale rifiuto del femminismo occidentale e per la possibilità di far parte di qualcosa di «nuovo, eccitante e illecito». Emily Winterbotham, la coautrice del rapporto, oltre a ribadire che l’uso dell’espressione «sposa jihadista» per descrivere il ramo femminile del terrorismo è riduttivo, ci racconta, «esiste un’implicita razionalità attorno alla radicalizzazione, e il ruolo maschile è decisamente passivo. Il processo decisionale di questi individui non riguarda l’essere manipolati e il lavaggio del cervello – c’è una logica chiara». Quella islamica.
Le donne britanniche sono tra le più importanti radicalizzate e propagandiste online al mondo. Come dimenticare le varie Sally Jones, soprannominata la «White Widow», la londinese Khadijah Dare e Aqsa Mahmood, studentessa universitaria scozzese che sotto lo pseudonimo di Umm Layth, gestiva account e blog – ormai cancellati – che invocavano attentati terroristici, in cui la vita del terrorismo islamico veniva romanzata, e dove si potevano trovare istruzioni dettagliate per le donne che desiderano essere protagoniste in prima linea.
Ma non si tratta di una novità introdotta dall’Isis. I gruppi terroristici come Boko Haram e al-Qaeda hanno sempre schierato donne in attentati. O comunque hanno affidato ad esse il ruolo di formare la «prossima generazione di terroristi». La storia dell’islam è piena di donne forti. Nusaybah bint Ka’ab è stata una delle prime donne a convertirsi all’islam ed era tra i compagni di Maometto e Aisha bint Abi Bakr, la moglie preferita del Profeta, cavalcava in guerra su un cammello. Perché anche se la donna sarà sempre considerata un oggetto nelle mani della volontà dell’uomo, non va dimenticata la dimensione politica del progetto islam: la donna non cerca riscatto nel jihadismo. Le jihadiste sono particolarmente consapevoli della sottomissione, della lapidazione e delle frustate, della violenta applicazione dell’interpretazione della Shariah, e che combattere la jihad significa anche essere complici di genocidi, ma la causa di Allah vince su tutto.
Nikita Malik, direttore del Centro di radicalizzazione e terrorismo della Henry Jackson Society, ha detto che la gran parte delle 900 persone che hanno viaggiato dalla Gran Bretagna verso Siria e Iraq sono donne. Si tratta di mogli, madri, che in nome di Allah vogliono islamizzare il mondo e combattere gli infedeli portando con sé anche i propri figli. La rivoluzione islamica significa anche questo: lotta per la preservazione dell’islam e la sua lecita diffusione fino allo sforzo militare.