Il Messaggero, 1 febbraio 2019
Abiti fuori contesto. A proposito dei gilet gialli
Gilet gialli catarifrangenti da lavori stradali come bandiera di un movimento politico che chiede le dimissioni di Macron. Lo stesso indumento ad alta visibilità era già profeticamente apparso nella collezione autunno/inverno 2018/19 di Calvin Klein disegnata da Raf Simons. Ma le strade di Parigi adesso vedono sfilare anche un altro capo: il foulard rosso, sfoggiato di chi si contrappone ai gilet gialli.
LE ORIGINI
Diversi capi di abbigliamento e differenti idee politiche. Nulla di strano, soprattutto oltralpe, dove un paio di secoli fa, durante la Rivoluzione Francese, chi voleva mandare alla ghigliottina l’aristocrazia ben si guardava dall’assumerne gli stessi comportamenti estetici e i più radicali erano proprio quei sans-culotte che evitavano i pantaloni sotto il ginocchio indossati dai nobili.
Vestirsi non solo per apparire, ma per essere, perché l’aspetto delle persone cambia assieme al loro modo di pensare e saltano alla mente dicotomie più recenti di quelle che fecero cadere il trono di Luigi XVI. Nel 1978 Francesco Guccini dedicava una canzone all’eskimo, contrapponendolo al più borghese paletot. «In quelli anni era il simbolo della protesta contro lo status quo insieme a zoccoli e borsa di Tolfa – dice Eugenia Paulicelli, storica della moda, docente di studi sulla donna al Queens College e alla City University di New York – Oggi quell’eskimo è diventato il parka e ha perso buona parte della sua connotazione politica. La moda si nutre di fenomeni nati dalla strada e una volta in passerella questi mantengono una certa allure scenografica, ma perdono il loro originario significato».
IL TOPLESS
L’urlo di protesta si trasforma in un sussurro deluxe. Come quel nude look di Yves Saint Laurent che con la sua couture del 1968 mandò in scena modelle vestite solo di un velo e senza quel reggiseno che veniva bruciato in piazza. Le Femen, in seguito, andarono oltre sfoggiando direttamente il topless, mentre le suffragette del primo 900 preferivano distinguersi con colori coordinati. Oppure la minigonna di Mary Quant, che sul filo di un orlo sopra il ginocchio lottava contro pregiudizi e comune senso del pudore. I punk, capitanati dalla stilista Vivienne Westwood, distruggevano gli abiti della borghesia a colpi di spille e catene. No, no e ancora no! è ricamato sul maglione simbolo della collezione di questo autunno/inverno di Christian Dior, che si rifà allo stile del maggio del 1968. Gli stessi della campagna Gucci per la prefall 2018. Alessandro Michele che da sempre s’ispira a epoche passate ha portato in scena giovani intenti a occupare l’università, come accadde alla Sorbona, e in marcia per le strade di Parigi. Come aveva fatto Karl Lagerfeld, inscenando una protesta firmata Chanel a colpi di tweed, matellassé e cartelli, per la primavera/estate 2015 della griffe, con tanto di top model armate di megafono, oltre che di qualche goccia di Chanel n. 5.
LE MOLESTIE
Un altro palcoscenico prestigioso come quello dei Golden Globes del 2018 ha visto tutte le attrici scegliere splendidi abiti da sera, come di consueto, ma esclusivamente in nero a sostegno delle colleghe colpite da molestie. Le scarpe scarlatte disposte sull’asfalto e nelle piazze sono gli accessori scelti dalla campagna contro la violenza sulle donne e chi ha voluto dire sì ai migranti ha indossato una maglietta rossa. Stessa tonalità per l’abito, ma con cuffia bianca monacale, che sfoggiano le donne pro aborto e contro Trump: l’ispirazione arriva da Il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood e relativa serie tv.
Se le madamine pro Tav di Torino hanno scelto l’arancione, c’è anche chi ha preferito un accessorio, come nel settembre 2014 a Hong Kong, dove i giovani in rivolta hanno impugnato gli ombrelli contro il controllo delle candidature politiche. In un teatro esclusivo come quello dell’ultima haute couture, Pierpaolo Piccioli da Valentino ha fatto sfilare quasi tutte modelle nere: un cambio di prospettiva contro il predominio bianco e le discriminazioni. «L’abito, come comunicazione non verbale, può essere molto potente e può contaminare ideologicamente – afferma la psicologa della moda Andrijana Popovic – Dall’ideale estetico si passa a quello etico e l’abbigliamento diventa metafora per manifestare, enfatizzare, provocare e creare appartenenza».