Corriere della Sera, 1 febbraio 2019
Il romanzo scritto via WhatsApp da un immigrato detenuto da 6 anni in un isola
Ha vinto due premi letterari – per l’equivalente di 80 mila euro – ma non ha potuto ritirarli personalmente: perché è confinato dietro le recinzioni di un campo di detenzione. Da sei anni.
Behrouz Boochani, 35 anni, iraniano di etnia curda, non è un prigioniero politico. Ma per lui è difficile apprezzare la differenza: si trova sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, a oltre mille chilometri dalla costa dell’Australia, e le sue speranze di essere accolto, come richiedente asilo, dal governo di Canberra sono prossime allo zero. Un migrante clandestino: ecco cos’è Behrouz Boochani. Voleva raggiungere l’Australia, terra immensa popolata da 25 milioni di cittadini tutti (a parte gli aborigeni) immigrati loro stessi o discendenti di immigrati.
Boochani ha un talento: sa scrivere. E bene. Non solo, racconta il britannico Guardian, è anche un uomo capace di non perdersi d’animo. Così, non avendo un computer nella sua baracca sull’Isola di Manus, ha composto il suo romanzo autobiografico (titolo: «No Friend But the Mountains: Writing from Manus Prison», Nessun amico se non le montagne: racconto dalla prigione di Manus), un messaggino alla volta, grazie a WhatsApp. Destinatario, il suo traduttore (dal farsi all’inglese) che ha poi messo tutto insieme in un libro giudicato degno del Premio Victorian per la saggistica e dell’analogo premio per la letteratura. «Non so che pensare – ha raccontato al Guardian lo stesso rifugiato-autore —. Davvero mi pare di vivere un paradosso».
Altro che paradosso: lo stesso Paese che lo ha respinto e rinchiuso in un campo (attivo grazie ai finanziamenti australiani) alla fine lo premia con una somma importante per la sua opera «trafugata» digitalmente in Australia, dove lui non è mai riuscito a mettere piede. Il Paese ha regole ferree riguardo l’immigrazione. I clandestini, la maggior parte dei quali tentano la traversata dall’arcipelago indonesiano, vengono bloccati dalla guardia costiera e spediti nel centro di detenzione a Manus o a Nauru. Canberra, con decisioni bipartisan, ha introdotto nel 2001 questa politica, inaugurando prima la «Pacific Solution» e, poi, la «Operation Sovereign Borders».
Sono migliaia i boat people finiti nei centri di detenzione, denunciati dalle organizzazioni umanitarie come «prigioni a cielo aperto». Pochissimi tra loro, dopo anni di attesa in condizioni precarie, ottengono asilo. La maggior parte dei rifugiati, che hanno alle spalle viaggi improbabili da Iran, Afghanistan e altri Paesi dell’Asia, restano, proprio come Boochani, indefinitamente in un contesto di abusi e scarsa assistenza che spinge molti a tentare il suicidio o a chiedere di rientrare in patria. Eppure tra loro ci sono gemme come il giovane curdo iraniano, vero poeta dell’anima.