1 febbraio 2019
Tags : Ciriaco De Mita
Biografia di Ciriaco De Mita
Ciriaco De Mita (Luigi Ciriaco D.M.), nato a Nusco (Avellino) il 2 febbraio 1928 (91 anni). Politico. Sindaco di Nusco (dal 26 maggio 2014). Già presidente del Consiglio (1988-1989), ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno (1976-1979), ministro del Commercio con l’estero (1974-1976), ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (1973-1974); già deputato (Dc, Ppi, Dl, Pd) (1963-1994; 1996-2008); già europarlamentare (Ppe) (1984-1988; 1999-2004; 2009-2014). Ex segretario nazionale (1982-1989) ed ex presidente (1989-1992) della Democrazia cristiana. «Io ero Dc prima che nascesse la Dc» • Figlio di un sarto e di una casalinga, si accostò alla politica in tenera età. «Avevo 8 o 9 anni. A Nusco il regime mandò dei confinati. Venivano nella bottega di mio padre, che era sarto, chiudevano le porte e chiacchieravano. Ma il mio primo maestro di politica fu il preside della scuola media, un sacerdote. […] Capii le colpe del re e del regime, e che non bastava volere la caduta del fascismo e la fine della monarchia. Il punto era che dovevamo perdere la guerra» (a Stefano Cappellini). «“Chiocchiò”, […] amico d’infanzia di “Ciriachino”, […] ricorda: “Lui era sempre il capo: giocavamo ai soldati ed era il comandante, ai preti ed era il vescovo, ai suonatori ed era il direttore d’orchestra”» (Virginia Piccolillo). «Io non sono nato semplice. Sono stato sempre molto problematico, e in fondo mi sono convinto della validità di quella verità che mi consegnava mio nonno: “Bada a chi vuole far apparire semplice una cosa complessa: significa che non l’ha capita”. Nella vita ho applicato questa massima costantemente ai miei comportamenti, sin dagli inizi della mia attività politica, quando a 16 anni tenni il mio primo comizio a Montella e l’avversario di allora, un comunista che chiamavano Nerone, mi avvertì che tanto dopo mi avrebbero bruciato. Giusto per comprendere il clima di quei tempi» (a Generoso Picone). «“A metà degli anni Quaranta ero presidente dei giovani di Azione cattolica. Quando, durante una riunione dei comitati antifascisti, sentii alcune espressioni forti contro la Chiesa, pensai: ‘Non ci siamo!’”. Nel 1946, malgrado non possa votare per motivi d’età, De Mita è attivo nella campagna elettorale che sforna l’Assemblea costituente e che decide la forma repubblicana del Paese. La Democrazia cristiana non dà un’indicazione di voto. “La stragrande maggioranza dei diccì campani era a favore della Monarchia – racconta De Mita –. Io, che ho sempre avuto la tentazione della guida, costrinsi un gruppo di ragazzi a giurare che avrebbero sostenuto la Repubblica anche se nessuno di noi poteva votare. Mio padre, sarto, che a Nusco era vice segretario cittadino dello Scudo crociato e che votava Monarchia, si lamentava con mia madre: ‘Che figura! Che figura!’. La sera delle elezioni cercai di discuterne, ma lui chiuse la conversazione dicendo che a tavola non si parla di politica”» (Vittorio Zincone). Grazie a una borsa di studio, s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano. «Quand’ero ragazzo io, […] ebbi una discussione con un compagno della Cattolica, un marxista. Gli esposi – il discorso durò ore – la mia idea della politica, e lui mi disse: “Ciriaco, tu sei crociano”. Io non avevo mai studiato Croce, ma compresi che alcune cose si respirano nell’aria, si sedimentano, ritornano anche senza evocazioni solenni o spiegazioni teoretiche». «Ero stato una sorta di contestatore alla Cattolica, nei primi anni Cinquanta. Insieme con Gerardo Bianco facemmo sì che i professori concordassero con gli studenti il piano di studi. E introducemmo la lettura di tutti i quotidiani, compresa l’Unità». Una volta laureatosi, trovò impiego come consulente presso l’ufficio legale dell’Eni, senza mai però abbandonare l’impegno politico. «“Io nel ’48 feci molti comizi”. […] Tra il 1953 e il 1954 la Dc cambia pelle: fuori la vecchia generazione che aveva frequentato il Partito popolare, e dentro i nuovi che si raggruppano intorno alla corrente di “Iniziativa democratica” e al leader Amintore Fanfani. De Mita: “Fanfani era professore alla Cattolica. Andai a sentire una sua lezione e non mi ci trovai. A me piace il pensiero delicato, lui aveva un pragmatismo veloce”. […] Si chiude un’era, De Gasperi muore proprio in quel 1954. “Nella mia vita ho pianto due o tre volte – racconta De Mita –. Una di queste è stata quando è morto Alcide”. Nel frattempo nasce la Base, corrente di sinistra di cui fanno parte Giovanni Marcora, Ezio Vanoni e lo stesso De Mita. Tra i fondatori-finanziatori c’è anche il mega-boiardo del petrolio italiano Enrico Mattei, parlamentare Dc della prima legislatura ed ex partigiano bianco. “La Base è un’esperienza culturale complessa – racconta il leader irpino –. È l’individuazione su varie parti del territorio di elementi di vivacità culturale, giovani, militanti delusi, persone di capacità straordinaria. A me in questo movimento è sempre piaciuto pensare, elaborare piani”. […] A metà anni Cinquanta, e soprattutto dopo la rottura del Psi con il Pci in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, l’idea che comincia a balenare nella testa di De Mita è la possibilità di un’alleanza con i socialisti. L’ex premier racconta: “Iniziai a riflettere sul come e sul perché. E iniziai a teorizzare non tanto l’alleanza tra i partiti, ma la convergenza delle culture che collaborano per la realizzazione di un disegno comune. Questo disegno era l’organizzazione dello Stato moderno, la risposta ai nuovi bisogni, alle nuove libertà e alle nuove relazioni”. La gerarchia ecclesiastica non è molto d’accordo. Quando De Mita si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1958, i vescovi del suo territorio gli remano contro e appoggiano i suoi concorrenti all’interno delle liste democristiane. “A uno di questi vescovi che cercava di convincermi a non candidarmi proposi un patto: ‘Lei spiega ai contadini che l’idea del centrosinistra non costituisce eresia e io non faccio la campagna elettorale insistendo su quella posizione’. Il monsignore domandò: ‘Mi vuole insegnare a fare il vescovo?’. E io replicai: “Lei vuole dire a me come fare politica?’”. Alla fine della campagna elettorale, De Mita nella piazza di Avellino arrivò ad accusare i vescovi di simonia perché si vendevano le preferenze. […] Il congresso di Napoli del 1962 è quello che traghetta definitivamente la Dc nella prospettiva del centrosinistra. Moro, segretario in carica, riconfermato, parla per sette ore. De Mita: “Più che relazioni, le nostre erano spesso delle lezioni. Moro è stato il gestore della Dc più raffinato, aveva una spiccata intelligenza operativa”. Nascono i governi con l’appoggio dei socialisti. Ma comincia anche un quindicennio durissimo in cui si alternano riforme, piani eversivi, governi balneari, colpi di Stato abortiti, stragi, contestazioni giovanili, lotte operaie e di nuovo scontri durissimi all’interno della Dc. All’epoca De Mita ha ricoperto anche l’incarico di sottosegretario agli Interni. […] La mattina del 16 marzo 1978, quando Moro viene rapito e la sua scorta massacrata dai terroristi, si deve votare la fiducia del secondo governo Andreotti. Il Pci ha alcune perplessità sui nomi dei ministri. “Stavo andando in Consiglio dei ministri”, racconta De Mita, che allora era titolare del dicastero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. “Mi chiamò Mastella per darmi la notizia. Corsi alla Camera. Poi a Palazzo Chigi. C’era grande smarrimento. […] La tesi prevalente era che non si doveva trattare con le Br, perché la trattativa non era praticabile”. È la linea della fermezza, su cui Dc e Pci si saldano durante tutti i 55 giorni della prigionia di Moro. Inamovibili. […] “Col senno di poi, bisognava trattare, certo, ma non sembrava proprio che ci fosse alcuna agibilità”. Con la morte di Moro crolla la solidarietà nazionale. I partiti sbandano. […] Esplode anche lo scandalo P2. Nelle liste della loggia massonica di Licio Gelli compaiono molti democristiani. Il governo Forlani si dimette. “Alla fine del 1981”, spiega De Mita, “organizzammo un’Assemblea con militanti, professori universitari, economisti”. L’Assemblea degli esterni. “Un modo per recuperare il rapporto con il retroterra del mondo cattolico, perché negli anni precedenti ci eravamo un po’ sputtanati. Fu un successo. Io preparai una bozza di intervento conclusivo. Spiegai a Piccoli che se l’avesse pronunciato il segretario sarebbe stato molto più efficace. Lui lo lesse e si prese molti applausi. Nei giorni successivi Piccoli si presentò nel mio ufficio. Era molto soddisfatto. Mi disse che aveva parlato con la moglie e che dovevo essere io il segretario. Lui parlava sempre con la moglie prima di prendere una decisione. Appena cominciammo le riunioni di periferia per organizzare il congresso, però, Piccoli, galvanizzato dal nuovo clima che si era creato intorno al partito, cambiò idea. Io non sono uno stratega, non mi piace ottenere le cose per forza, però ormai ero in gioco, e allora mossi le mie relazioni all’interno della Dc per giocare”. Siamo alla vigilia del congresso Dc del 1982. […] Il partito cerca il rinnovamento ed elegge un segretario che sarà il più longevo della storia scudocrociata: Ciriaco De Mita. […] Nel giugno 1983 si va a elezioni. La Dc ha un tracollo: passa dal 38% al 33%. Il Psi sale. “A quel punto ipotizzai un governo Craxi – racconta De Mita –. C’incontrammo in un convento sull’Appia Antica. Craxi mi disse che lui avrebbe voluto fare metà legislatura a testa. Replicai che ero d’accordo, perché sarebbe stato strano se la Dc, partito di maggioranza, non fosse andata alla guida del governo per l’intera legislatura. A Craxi ho sempre spiegato che lui aveva due strade percorribili: mettersi a capo del rinnovamento della sinistra o allearsi con me, a condizione, però, di rinnovare insieme le istituzioni”. La vulgata vuole che sia stato Craxi in quegli anni il motore di una possibile riforma istituzionale. “Non è vero – continua De Mita –. I socialisti durante i loro congressi parlavano dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma poi politicamente non aprivano mai un dialogo sulle riforme”. […] Con Craxi e il Pentapartito si raggiunge una solida stabilità di governo. La Dc, però, fibrilla. Al congresso del 1984, durante il quale De Mita si esibisce in una relazione fiume di più di quattro ore, i delegati vengono alle mani. Da una parte i demitiani e le cosiddette truppe mastellate, dall’altra i cislini di Franco Marini. […] Il 1985 è l’anno […] della proclamazione al Quirinale di Francesco Cossiga. “Andreotti voleva diventare presidente – racconta De Mita –. Alessandro Natta, segretario del Pci post-berlingueriano, però, mi fece sapere che loro non lo avrebbero sostenuto. Allora, con una liturgia ben preparata, feci in modo che il nome di Francesco Cossiga entrasse nelle terne dei papabili di tutti i partiti”» (Zincone). «“Disegnai un metodo che portava a lui. Toccava alla Dc? Bene, il segretario della Dc, che ero io, decise di incontrare tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Quindi tutti, tranne l’Msi. Andreotti, che era un candidato naturale, mi disse: ‘Se votano Cossiga, andiamo avanti su di lui’. Convinsi Spadolini garantendo che Cossiga avrebbe tenuto Maccanico alla segreteria generale del Quirinale. E i liberali promettendo, d’accordo con Cossiga, che dal Colle avrebbe fatto Malagodi senatore a vita. Da ultimo, l’incontro con Natta a casa di Biagio Agnes. Era fatta”. Ma nessuna delle promesse venne mantenuta da Cossiga. Né Maccanico al Colle né Malagodi senatore a vita. “Fosse solo questo. L’avevo mandato io al Quirinale. Eppure, da lì, mi voltò le spalle. Mai mi aiutò nel confronto con Craxi. Vent’anni dopo, quando stette male, alla fine, chiesi di parlagli. Telefonavo e non me lo passavano. Chiamai il figlio: ‘Dì a tuo padre che deve rimanere vivo perché ho ancora bisogno di capire delle cose da lui’. Lui morì, io rimasi senza sapere”» (Tommaso Labate). «Alla fine degli anni Ottanta, l’irpino De Mita oltre che segretario della Dc diventa anche presidente del Consiglio. In Transatlantico comincia a circolare la battuta secondo cui “Napoli è stata ribattezzata Avellino Marittima”. Il “clan degli avellinesi”, i collaboratori più stretti dello stesso De Mita, diventa perno centrale prima della Regione Campania e poi del governo nazionale. […] Craxi e De Mita, i due pesi massimi della politica italiana degli anni Ottanta, pur facendo parte della stessa maggioranza, si combattono politicamente per un decennio. Sulla stampa si arriva addirittura alla diatriba becera su chi dei due abbia più “palle”. De Mita: “Credo che fossimo d’accordo sul fatto che le avevamo entrambi. La prima volta che ho incontrato Craxi non mi fece una buona impressione. Stavo camminando per strada con Giovanni Marcora, e lui, che lo conosceva, vedendolo venirci incontro, gli chiese: ‘Dove vai?’. Craxi replicò: ‘A chiavare!’. Nel 1989, poi, Craxi si comportò in modo mediocre per come fece cadere il mio governo. Ma dopo di allora ci fu un rapporto d’incredibile solidarietà umana. Veniva a casa mia, discutevamo”. Sono gli anni del Caf, l’asse politico Dc-Psi, tra Craxi, Andreotti e Forlani che governa il Paese, mentre crolla il Muro di Berlino e finisce la storia del Pci. Politiche del 1992. Le indagini di Tangentopoli sono già in corso, ma i partiti non sono ancora consapevoli di che cosa gli si sta per rovesciare addosso. “Allora ero presidente della Dc – ricorda De Mita –. Dopo le elezioni proposi un governo di larga solidarietà, anche con il Pds. Ne andai a parlare con Craxi. Non era disponibile. Spostò il discorso proponendomi di fare il presidente della Camera, ma gli spiegai che avrei preferito guidare la Bicamerale per le riforme”. […] Dopo la morte di Falcone, i partiti lavorano per la nascita del nuovo governo. “Craxi era convinto di ricevere l’incarico – racconta De Mita –. Voleva assegnare l’Economia a Bruno Visentini. A me disse: ‘Ma quale Bicamerale? Vieni a fare il ministro degli Esteri e giriamo il mondo’. Non aveva capito nulla di quello che sarebbe successo ai partiti con Tangentopoli”» (Zincone). Attraversata indenne Tangentopoli, allo scioglimento della Dc De Mita aderì dapprima al Partito popolare, quindi alla Margherita e, nel 2006, al Pd, dal quale uscì però polemicamente solo due anni dopo, quando il segretario Veltroni decise di non ricandidarlo alla Camera, in ossequio all’appena introdotto limite dei tre mandati parlamentari (disatteso, però, per tutti i principali maggiorenti del partito). De Mita aderì allora all’Udc: fallita nel 2008 l’elezione al Senato, l’anno successivo riuscì però a entrare al Parlamento europeo, mentre nel 2014, tra la sorpresa di molti osservatori e l’entusiasmo dei concittadini, si fece eleggere sindaco della natia Nusco (con il 77,35% dei voti), proponendosi di «ricostruire la comunità». Distintosi nell’ottobre 2016 come pugnace esponente del fronte del «no» per il referendum costituzionale anche in un teso dibattito televisivo con Matteo Renzi, nel novembre 2017 abbandonò l’Udc, in polemica con il riavvicinamento del partito al centrodestra. Fondò allora insieme al nipote Giuseppe De Mita, eletto alla Camera nel 2013 nelle file dell’Udc, il movimento «L’Italia è popolare», che in vista delle elezioni politiche del 2018 aderì alla lista «Civica popolare» guidata da Beatrice Lorenzin e alleata al Pd, senza però ottenere alcun seggio. Nell’agosto 2018 De Mita ha annunciato la sua intenzione di non ricandidarsi alle elezioni comunali del 2019. «La volta scorsa mi sono impegnato come candidato a Nusco ponendomi come obiettivo quello di ricostruire il tessuto valoriale della comunità locale. […] Ho subìto una opposizione meschina e insopportabile: mi hanno persino denunciato alla Procura della Repubblica. Ce l’ho messa tutta, ho tentato di promuovere discorsi costruttivi, di coinvolgere quante più persone nelle decisioni. Ma alla fine non c’è stato nulla da fare. E dire che c’ero già passato. […] Nel 1956 provai a candidarmi qui a Nusco. Proposi di portare l’acqua e l’energia elettrica in campagna. Ma fui osteggiato da un movimento locale che invece tutelava interessi, diciamo, diversi. E persi le elezioni. La situazione, dopo oltre sessant’anni, non è cambiata». «Io ragiono in giorni. E spero che i giorni durino più a lungo possibile. Se legassi il mio impegno politico all’essere sindaco a Nusco, qualcuno potrebbe pensare che mi sono rincoglionito» • Ha partecipato alla realizzazione de L’animale politico di Carmine Caracciolo e Roberto Flammia (2018), film-documentario incentrato sulla sua vita • Sposato con Anna Maria Scarinzi (classe 1939), quattro figli: Antonia (1967), Giuseppe (1969), Floriana (1973) e Simona (1974) • «Fino all’età di ottantasette anni, De Mita è stato seguito da un medico che era un pediatra. Ora non più. A novant’anni ha detto addio al pediatra. “No. Ho semplicemente scoperto che quel medico, che era l’amico di una vita, non era un amico. E quindi l’ho cambiato”» (Labate) • «Si sfotte la mia fonetica. Ma lo sa, che in un saggio il linguista Tullio De Mauro scrisse che la mia pronuncia era giusta?» (a Vittorio Zincone) • «“Una volta un professore della Cattolica mi disse: ‘Ciriaco, tu hai l’intelligenza di Lucifero’. Giovanni Marcora, fondatore della corrente di Base della Dc, sosteneva invece che, se tutti quelli che avevo mortificato col mio pensiero si fossero alleati, di me non sarebbero rimaste ‘nemmeno le briciole’. Ma sa qual è la verità? Intelligenza o non intelligenza, pensiero o non pensiero, la verità è che io sono un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, so perfettamente le cose che so fare e quelle che non so fare. Le prime, le faccio. Le seconde, no”. Ci dica una cosa che non avrebbe saputo fare. “Il presidente della Repubblica. Ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un presidente della Repubblica non può chiacchierare. […] Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale. Non volevano Giulio Andreotti, ma sul sottoscritto erano disposti a ragionare. Il segretario del Pci me lo fece intendere con l’intelligenza che gli era propria. Era un segnale chiaro: io lo feci cadere nel vuoto”. Si è pentito, poi? “Mai. Nemmeno se ci ripenso oggi”» (Labate) • «“E di De Mita cosa pensa?”, domanda Giovanni Minoli. La risposta di Gianni Agnelli è di quelle che si condensano subito in una definizione proverbiale, destinata ad appiccicarsi al bersaglio per tutta la vita: “Lo considero un tipico intellettuale del Mezzogiorno, di quella formazione filosofica, di quella tradizione di pensiero tipica della Magna Grecia”. Era il 1984. Da allora in poi, non c’è stato articolo di giornale che nominasse Ciriaco De Mita senza prestare omaggio all’insuperabile arguzia dell’avvocato Agnelli e alla sua sottilissima, brillantissima, spiritosissima definizione di “intellettuale della Magna Grecia”. Indro Montanelli, che lo detestava, ne ricavò anche una battuta che faceva ridere: “Dicono che De Mita sia un intellettuale della Magna Grecia. Io però non capisco cosa c’entri la Grecia”. Tra tutti i grandi attori della Prima Repubblica, De Mita non è stato né il più potente né il più popolare, ma è stato certamente il più versatile: protagonista della battaglia per il ricambio generazionale nella Dc sin dai tempi di Fanfani, simbolo di un sistema clientelare e corrotto ai tempi del terremoto in Irpinia, campione del fronte del rinnovamento e della moralizzazione ai tempi dello scontro con Bettino Craxi. Modernizzatore e tradizionalista, riformista e conservatore, rottamatore e rottamato: De Mita, come la Dc, è stato tutto. […] Per un certo periodo ha goduto anche di buona stampa. “When De Mita presides, everybody sits up”, scriveva l’Economist nel momento del suo splendore. Eugenio Scalfari puntò tutto su di lui» (Francesco Cundari). «Quando lungo il Transatlantico di Montecitorio si spostava, […] non era la sua semplice transumanza, ma quasi trionfale ingresso di un galeone in porto – il braccio ficcato con decisione dentro l’incavo di quello dell’interlocutore, concettosi arabeschi nell’aria, avanti e indietro, la bella convinzione di un suggestivo ragionamento e la triste consapevolezza della scarsità intellettuale dell’altro. Dai giornalisti, mica a torto, poco si aspettava: “Dimiche’, io provo a formulare un ragionamento politico. Non so se tu sei in grado di comprenderlo…”. Pausa, occhiata prima dubbiosa e poi rassegnata al cronista che gli offriva il sostegno del proprio avambraccio: “Mah, non credo… Ne dubito molto…”» (Stefano Di Michele). «Nel giugno 1988, quando era da due mesi il presidente del Consiglio, andò a Toronto per un vertice dei capi di governo. Ad un certo punto, gli statisti che lo ascoltavano, per prima la signora Margaret Thatcher, pensarono di aver dei problemi con l’auricolare. Invece era l’interprete di Ciriaco che aveva gettato la spugna, stroncato dalla suprema difficoltà di tradurre in inglese i ragionamenti demitiani» (Giampaolo Pansa) • «Non bisogna mai confondere la condizione reale con il desiderio personale». «Sono il solo politico che ha allevato classe dirigente. Quando mi elessero, in provincia di Avellino c’era un solo deputato. Non è colpa mia se a ogni elezione ne eleggevo uno nuovo. Ma era tutta classe dirigente». «Gli uomini hanno un pezzo di immoralità, tutti. Poi la affrontano, la risolvono, a volte prevalgono, a volte soccombono. Ma nessuno è una vergine» • «Pure Gorbaciov guardava al modello di partito democristiano italiano come a un riferimento. […] Nella mia visita in Urss da presidente del Consiglio nell’ottobre del 1988, stabilii con lui un rapporto per niente protocollare ma molto amichevole, e mi confessò che guardava con interesse alla nostra forma di partito. Gorbaciov amava l’Italia e la democrazia, puntava a inserire straordinari elementi di novità nel sistema sovietico, e soprattutto era convinto che senza spiritualità non c’è l’uomo, la spiritualità ne è la vera sostanza. Poi l’Urss scelse Eltsin al posto suo, e abbiamo visto come è andata». «Il merito della Dc non è nelle cose fatte; è stato creare la democrazia in Italia, portare su posizioni democratiche un popolo istintivamente reazionario». «La Dc in realtà non è finita per colpe. La Dc è finita perché il Padre Eterno l’ha punita: vedendo che avevamo esaurito la grande motivazione ideale, negli ultimi anni mandò a dirigere il partito persone poco competenti» • «Io sono uno di quelli che ha lottato per assegnare alla sinistra un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra democrazia. Finita questa storia democristiana che molti vogliono solo negativa, mi sapete dire che cosa è successo dopo? Chi è arrivato?». «È finita la cultura della sinistra: in Italia ha esaurito il suo ruolo, lasciando un Pd che è una superstizione» • «A me non sembra che vi sia un governo. Certo, noto che vi sono persone al comando differenti per intelligenza ed educazione, ma le quali pensano che la soluzione del problema sia l’individuazione del problema stesso. Le sembra possibile?» (ad Angelo Agrippa, nell’agosto 2018). «Soltanto col pensiero si esce da questo periodo. “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”, disse una volta Moro. Vale ancora più oggi che la volta in cui Moro lo disse» • «Anziano? Ricordo che senza memoria storica non si può costruire il futuro». «Mi sento più giovane di tutti, anche di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi». «L’età si misura dalla testa: se funziona, l’età non c’è; quando non funziona, l’età c’è. La testa è garantita per me dal Padreterno, per gli altri dalle leggi biologiche» (a Enrico Fierro). «Solo chi si arrende è vecchio in politica» • «Quando iniziò il declino della Dc, e a un convegno si discuteva su quello che bisognava o non bisognava fare, chiusi il mio intervento citando un poeta spagnolo: “Quando morirò, seppellitemi con la mia chitarra”. Da allora sono passati quasi trent’anni. E, visto che sono ancora in tempo per cambiare idea, cambio il messaggio. Quando morirò, seppellitemi con un biglietto in cui c’è scritto “Sono stato democristiano”. Aspetti. Non “sono stato”. Nel biglietto ci dev’essere scritto “Sono democristiano”. Al tempo presente» (a Tommaso Labate).