Libero, 31 gennaio 2019
Le canzoni di Sanremo massacrano l’italiano
Viene da chiedersi se sia ancora il Festival della canzone italiana, tra sgrammaticature, costruzioni sintattiche spericolate e termini stranieri inseriti “ad capocchiam”. Leggendo i testi dei brani di Sanremo, viene il sospetto che alla base non ci siano licenze poetiche o contaminazioni culturali, ma provincialismo linguistico e sciatteria nella scrittura. E che forse manchino i grandi parolieri di una volta. Il miglior riassunto della situazione verbale del Festival della canzone lo fa Motta, in gara con il brano Dov’è l’Italia, volutamente scritto senza punto interrogativo, sebbene poi quell’espressione, come si capisce nel testo, sia una domanda. Ma, dice lui, «odio mettere la punteggiatura quando scrivo». E allora aboliamolo pure, il punto interrogativo! E non solo quello, perché a fargli compagnia ci sono anche le virgole, queste sconosciute. senza criterio. Da sempre esse non hanno mai trovato grande spazio nei testi delle canzoni. Ma almeno le si usava con un certo criterio. Non come Federica Carta e Shade e i loro parolieri che in Senza farlo apposta mettono la virgola dopo l’avversativa «ma» («scusa ma, non me ne importa»): cosa che non si fa mai, come ci hanno insegnato a scuola elementare. Ma, non devono averlo fatto apposta... Quanto a segni di interpunzione, occorrerebbe una ripetizione pure a Enrico Nigiotti, che si domanda «quand’è che passa!?», mettendo punto esclamativo prima dell’interrogativo. Errore blu perché semmai si fa il contrario, come sa bene Caparezza che aveva intitolato un album proprio così: ?!. Se proprio vogliamo infierire, dobbiamo pensare all’uso azzardato del congiuntivo da parte di Einar, che si esibisce in un «c’è chi dice che il tempo anestetizzi»: e no, si dice «anestetizza», perché il verbo «dire» vuole l’indicativo (l’Accademia della Crusca, almeno sui congiuntivi, non si è ancora sbilanciata). Vogliamo pure parlare del ricorso al «che» senza un perché? Si chiedano allora spiegazioni a Paola Turci che si cimenta in un «fermati che non è l’ora dei saluti» o a Federica Carta e Shade, interpreti del «sono qui stasera, ancora una volta che c’è la luna piena». Su costruzione acrobatica della sintassi e incomprensibilità semantica bisogna però rivolgersi a Patty Pravo e Brega che cantano: «Un po’ come la vita senza più sognare di esistenza e di ironia e scivolare via come dire “ancora un po’” andare a cercare quella cosa che fa sempre un po’ più male ma che porta in un momento a riconsiderare il vento». Chiaro, no? E poi c’è il capitolo «parole straniere». C’è il tale Achille Lauro, nome da armatore, faccia da trappista (nel senso di colui che canta trap), che nel brano Rolls Royce riesce nell’impresa di usare 40 termini in inglese, tra nomi di città, personaggi famosi e gratuiti anglismi, più il francesismo «c’est la vie». citato il ramadaN E c’è Mahmood, di origini egiziane, che dopo aver citato il «Ramadan», non può fare a meno di metterci una frase in arabo: «waladi waladi habibi ta’aleena», che vuol dire qualcosa tipo «ragazzo, ragazzo amato». Ma il capolavoro lo compie Enrico Nigiotti che, nel lamentarsi «si parla più l’inglese dei dialetti nostri», intitola la sua canzone proprio con un nome inglese: Nonno Hollywood. Quanto al dialetto, ci pensa il solito Nino D’Angelo, stavolta insieme a Livio Cori, che ricorre a passaggi degni del traduttore come «Curre ‘ngopp a nu filo senza mai cade’. Si ‘a rint tien a guerra nun o faje vedè». Dove siamo fortissimi è però nel turpiloquio. E allora ecco le «cazzate» di The Zen Circus, i «cazzi nostri» del solito Nigiotti, e il «te ne fotti» di Mahmood. Dopo tutto, dell’italiano chi se ne fotte.