il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2019
Le ovazioni nello studio di Floris per Salvini
Laltra sera, a DiMartedì, il pubblico in sala faceva un tifo sfrenato per Matteo Salvini. Non certo una novità, alla luce della crescente popolarità del capo leghista consacrata dai sondaggi. Inusuale era invece la freddezza (e forse qualcosa di più) mostrata dal medesimo pubblico nei confronti di Giovanni Floris. O meglio, dell’ammirevole insistenza con cui egli, da giornalista libero, pressava l’ospite chiedendogli conto della politica di contraddizioni, errori (e costante ferocia) adottata nei confronti dei migranti che approdano sulle nostre coste. Cosicché, ogni volta che il ministro dell’Interno replicava con il consueto armamentario comiziante alle domande del conduttore, la platea esplodeva con la stessa potenza sonora di una curva calcistica. Applausi scrosciantissimi, urla di giubilo, invocazioni ritmate di bravo, bene, giusto, avanti così.
Tra le più scatenate alcune signore nelle prime file, a tal punto che non avrebbe destato sorpresa alcuna se tutte insieme prese da incontenibile emozione si fossero protese a sollevare il loro idolo per portarlo in trionfo. Chi guardava da casa non poteva non essere colpito dalla forza di quel debordante entusiasmo.
Come tutti sanno nei talk show il pubblico in sala è quasi sempre formato da figuranti arruolati per l’occasione (anziani pensionati, studenti a caccia di qualche euro) che in genere applaudono a un segnale convenuto. A DiMartedi la frequenza dei battimano è assillante, ai limiti della molestia, ma nello stesso tempo è di tipo meccanico e con un diapason standard: si festeggia tutto e il contrario di tutto, allo stesso modo. Perciò, a quell’entusiasmo alle stelle pro Salvini possiamo dare due spiegazioni.
Normale propaganda: la presenza di un rumoroso manipolo di fan infiltrato da via Bellerio. Oppure, passione autentica e irrefrenabile: “Lingua mortal non dice, quel ch’io sentiva in seno”. Propendiamo per la seconda, basandoci anche sulle nostre frequentazioni televisive nelle quali qualsiasi “non se ne può più” (degli immigrati, ovvio) pronunciato dal primo pisquano che passa suscita immancabilmente vivo apprezzamento. Figuriamoci poi se siffatto sentimento giunge espresso dal sommo Capitano. Soprattutto se costui si presenta come un San Sebastiano trafitto dalle frecce dei perfidi (e forse incauti) magistrati (richiesta di autorizzazione a procedere per la vicenda della nave Diciotti). Sol “per avere agito nell’interesse superiore del Paese, e nel pieno rispetto del mio mandato”, lui dice con voce incrinata. Un climax di profonda commozione che ha il suo acme quando il vicepremier pronuncia il sacro giuramento: “Rifarei tutto. E non mollo”. Mancano solo la Canzone del Piave, la fanfara dei Bersaglieri e la Bella Gigogin che si asciuga una lacrima.
A questo punto, onestamente, i quesiti di Floris e gli argomenti esposti dai giornalisti perplessi (mentre quelli salviniani gongolano) producono il rumore di una campana stonata al Te Deum. E, difatti, ecco che nello studio s’ode un brusio come di burrasca in arrivo, e non grandinerà solo per rispetto al conduttore, e forse anche per non pregiudicare la paghetta futura. C’è da interrogarsi infine, e seriamente, su cosa mai abbia causato questo gigantesco, ribollente giacimento di risentimento collettivo. Domandarsi quale senso di profonda ingiustizia e ripulsa, quali violenze subìte, quali offese alla amata Patria, quali devastazioni dello spirito abbiano generato le precedenti politiche sull’immigrazione.
Se per un pubblico sempre più vasto le immagini dei disgraziati destinati a marcire (questi sì) sopra una carretta nel mare, oppure sotto, oppure nei lager degli amici libici, suscitino inconfessabili pensieri. Il meno inconfessabile dei quali è: se la sono cercata. Senza dubbio il pifferaio Matteo è stato bravo a farsi pastore di una moltitudine che quando si tratta di “quelli là” pende dalle sue labbra. Il sonno della ragione genera voti.