la Repubblica, 31 gennaio 2019
Così danzavano nell’antica Cina
Nel 1900 Luigi Barzini, allora giovane giornalista del Corriere della Sera, fu inviato in Cina da Luigi Albertini per seguire i tragici eventi della rivolta dei Boxer. I cinesi protestavano contro l’invadenza degli occidentali e contro la corruzione degli ultimi esponenti della dinastia Manciù. Barzini raccontò in diversi libri le sue avventure nel celeste impero. A suo dire, in quei giorni, Pechino era divenuta una città pericolosissima soprattutto per i cinesi, perché gli europei, liberate le Legazioni assediate, si dedicavano con tutti i mezzi “«a dare una lezione alla Cina» e ai suoi abitanti.Nelle strade desolate della città incontrò uno studioso francese.Guarda caso si trattava di Paul Pelliot che, con Edouard Chavannes, fu tra i primi editori della rivista T’oung Pao. Proprio a quest’ultimo Marcel Granet sottopose il suo primo articolo da aspirante sinologo, dedicato ai costumi matrimoniali della Cina antica. Il lavoro era il risultato di un periodo di alcuni mesi di permanenza in Estremo Oriente, nel corso del 1911, anno in cui terminò la dinastia Qing (Manciù) e fu istituita la repubblica presieduta da Sun Yat-Sen. Un periodo splendidamente narrato da Bernardo Bertolucci in un indimenticabile film.Granet era stato discepolo di Marcel Mauss, uno dei fondatori dell’antropologia francese, a sua volta parente e discepolo Emile Durkheim, il notissimo autore della Teoria generale della magia. I francesi stavano approntando, a cavallo del secolo, un metodo nuovo per affrontare le civiltà altre, metodo che produsse risultati straordinari nel corso di tutto il ‘900. Tra questi dobbiamo annoverare gli studi sulla religione, sul pensiero e sulle leggende della Cina, tutti argomenti trattati in diverse opere dal nostro autore.Nella lunga introduzione a Danze e leggende dell’antica Cina, ora pubblicato in italiano da Adelphi, con traduzione di Elena Riva Akar e un ricco apparato curato da Carlo Laurenti, Granet focalizza l’indagine su un ambito temporale antichissimo, quello in gran parte esaminato con un lavoro paziente e raffinato da Confucio che, ricordiamolo, visse tra il 551 e il 479 a.C., ai limiti dell’età del mito.
Considerato il maestro di mille generazioni e il fondatore dell’etica imperiale il filosofo, all’età di 54 anni, lasciò ogni altra occupazione per dedicarsi allo studio dei principali testi della Cina antica. Dal suo intenso lavoro scaturì una famosa opera intitolata Annali di primavera e Autunno (Chunqiu).
Granet pone in dubbio la possibilità di ricorrere, senza un attento studio preliminare, ai testi antichi, perché sottoposti a continue modifiche ed interpolazioni nel corso di secoli. Inoltre, nel constatare tante falsificazioni, si poteva essere indotti a credere che la cultura cinese non fosse antica come i letterati sostenevano e tantomeno del tutto originale.Egli aveva però dinanzi agli occhi un paese esausto, piegato dall’oppio e dalla corruzione e stravolto dall’intervento occidentale. Pesava pertanto su di lui quel pregiudizio denunciato da Barzini, con giusto sarcasmo e in puro stile giornalistico. Il modello europeo, negli anni Venti, quando fu pubblicato Danze e leggende dell’antica Cina,dominava in tutti i continenti e solo delle frange di artisti e di marginali ne contestavano il primato. Anche la lingua cinese, secondo Granet, riduceva al minimo le risorse critiche della filologia. La tradizione confuciana aveva poi piegato la letteratura ad un uso di per sé improprio, perché eminentemente pratico, con l’obiettivo di educare il principe e i saggi. Queste sue considerazioni, e le scelte ad esse conseguenti, rendono la sua opera interessante come eccelsa testimonianza di un periodo specifico e circoscritto della sinologia e non tanto per l’impianto interpretativo. Gli studi degli ultimi decenni in particolare di Li Xueqin hanno intaccato alla radice, grazie anche ad importanti scoperte archeologiche, i pregiudizi dei sinologi del secolo scorso sulla antichità delle fonti. Basta leggere la Cambridge History of Ancient China, edita nel 1999, o in Italia i lavori di Maurizio Scarpari, per rendersene conto.
Nel corso degli ultimi anni sono stati trovati molti manoscritti su listelli di bambù, in tombe databili attorno al 300 a.C., e in questi antichissimi documenti vi è ampia testimonianza di testi letterari e di opere di Confucio.
Granet, ai suoi tempi, riteneva di poter affrontare il difficile compito di selezionare i testi necessari al compimento della sua opera con uno strumento specifico: l’analisi sociologica che sarebbe venuta in aiuto alla critica storica, lì dove questa non avesse trovato punti di riferimento sicuri.Le leggende raccolte hanno l’arcano fascino dei racconti omerici, riportano ad un’epoca che l’autore definisce degli Egemoni, tra la fine dell’impero degli Shang (o Yin dal nome di una delle capitali, 1600-1046 a.C.) e l’emergere degli Zhou occidentali. Per chiarirci ci troviamo nell’età del bronzo, quando ancora si ricorreva in casi molto specifici ai sacrifici umani.Il tono di queste leggende è maestoso come il volo di una gru, si eleva fino ai cieli, offrendoci pagine di incomparabile bellezza.
Si raccontano, ad esempio, le cerimonie che seguirono alla vittoria del re Wu e del momento del suo ingresso trionfale nella città degli Yin che culminarono con una danza complessa piena di simbolismi astrali e religiosi, al termine della quale il re stesso diede da mangiare agli anziani, poi prese lo scudo delle pantomime e danzò in loro onore. Aveva dimostrato in tal modo di essere un uomo virtuoso, colui che ha in sé la perfezione e la usa a favore del prossimo.
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