Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 31 Giovedì calendario

Biografia di Wernher Von Braun

Quando mezzo secolo fa il primo uomo mise piede sulla Luna, il mondo intero esultò insieme agli americani. Ma più di tutti probabilmente esultarono i tedeschi. A riempirli d’orgoglio fu soprattutto il ruolo avuto nell’impresa del secolo da colui che «der Spiegel» aveva definito «il Cristoforo Colombo del Cosmo». Aveva 57 anni nel 1969, Wernher von Braun. Ma era già una leggenda. Era lui, nato a Berlino, scienziato e padre della missilistica moderna, ad aver costruito i giganteschi razzi che portavano gli astronauti statunitensi nello spazio. Geniale e carismatico, von Braun aveva anche le physique du rôle di un eroe mitologico: alto, biondo, gli occhi azzurri, la mascella volitiva.
Il trionfo dello sbarco sulla Luna sembrò aver definitivamente ragione di tutte le ombre del suo passato, trasformandolo in una saga. Studente prodigio, affascinato sin da piccolo dal sogno dei razzi, egli era stato l’artefice delle V2 di Hitler, i primi missili della storia umana, l’arma miracolosa che nei vaneggiamenti del Führer avrebbe dovuto cambiare il corso della guerra. Non servirono a molto, anche per i tanti difetti tecnici che a tutt’oggi ne fanno il sistema d’arma che ha ucciso più persone nella fase della produzione che durante il suo breve impiego sulle città inglesi. Ma il dominio della nuova tecnologia fu il talismano che dopo la guerra aprì a von Braun e alla sua squadra di collaboratori le porte dell’America, che lo accolse a braccia aperte. Prima nei laboratori della US Army, poi in quelli della Nasa, egli sviluppò fra gli altri un missile a corto raggio usato nella Guerra di Corea, lo Jupiter che portò nello spazio i primi satelliti americani e soprattutto il mastodontico Saturno, che lanciava le navicelle Apollo. Nella retorica dei suoi biografi, von Braun diventò l’incarnazione dell’uomo di scienza visionario che sogna la cosa giusta, fa quella sbagliata con un patto faustiano, ma alla fine trionfa lo stesso.
Ma andò proprio così? Non esattamente, secondo lo studioso tedesco Christopher Lauer, che ha avuto accesso a documenti inediti (compresa la tesi di dottorato di von Braun) e che in un saggio pubblicato dalla «Frankfurter Allgemeine am Sonntag» ridimensiona il mito del «Rakete Beau», il bello dei missili (sempre copyright «der Spiegel»), gettando dubbi pesantissimi sui meriti scientifici del nostro. A cominciare dagli esordi, quando secondo la narrativa ufficiale von Braun neanche ventenne sarebbe stato notato da Karl Emil Becker e Ernst von Horstig, due esperti della Reichswehr (l’esercito di Weimar) che all’inizio degli anni Trenta facevano esperimenti con i primi rudimenti di tecnologia missilistica. Entusiasti delle capacità e delle intuizioni del ragazzo, gli avrebbero offerto di prendere la guida di quello strano laboratorio dell’esercito tedesco.
Poco plausibile, osserva Lauer, rivelando che in realtà von Horstig, in una nota personale conservata negli archivi federali e fin qui ignorata, esprimeva un giudizio negativo sulle sue conoscenze. E che la decisione di offrire un lavoro al giovane von Braun ebbe ben altre motivazioni: la prima fu il suo rapporto personale con Rudolf Nebel, ex asso dell’aviazione, ingegnere genialoide con un’ossessione da praticone per i razzi, di cui costruiva modellini che faceva esplodere davanti a un pubblico di appassionati in uno spazio berlinese conosciuto come Raketenflugplatz. Il giovane von Braun era assiduo frequentatore e aiutava Nebel nei suoi esperimenti. Una foto li mostra insieme con due missili caricati sulle spalle. Carattere difficile, Nebel era il guru, Wernher l’adepto. «Volevano agganciare il primo e per questo si concentrarono sul secondo», scrive Lauer. Ma soprattutto, a fare la differenza fu il padre di Wernher, Magnus von Braun, ministro del Reich per l’Agricoltura, per nulla entusiasta della passione del figlio che lo distoglieva dagli studi, dove non eccelleva. A lui Horstig propose di far lavorare il ragazzo alla ricerca sui razzi nella Reichswehr e allo stesso tempo completare il corso universitario. Per Horstig, sempre in cerca di finanziamenti per progetti in cui nessuno credeva, avere un appoggio dentro il governo non era poca cosa.
Lauer getta poi dubbi pesanti sull’autobiografia di von Braun, che racconta di aver costruito da solo i suoi due primi prototipi, Max und Moritz. In realtà, da una nota scritta di Horstig e fin qui inedita, si apprende che al giovane avevano dovuto affiancare un esperto in propellenti liquidi preso da un’azienda berlinese. Di più, che il nostro non fosse da solo in grado di costruire un razzo, lo prova una sentenza del Tribunale di Monaco di Baviera del 1952. Era stato il vecchio guru Nebel dopo la guerra a querelare von Braun, contestandogli di essersi autodefinito «l’inventore delle V2». I giudici avevano dato parzialmente ragione a von Braun, tranne che su un punto: «È sicuro che egli non sarebbe andato avanti nello sviluppo dei missili se non gli fossero stati dati dei collaboratori».
Il suo nome è legato ai razzi che 50 anni fa portarono gli americani sulla Luna
E la dissertazione di laurea? Intanto Lauer dimostra che von Braun mentì dicendo che il suo relatore era stato Karl Becker, cosa non sostanziata in nessun archivio. Perché questa bugia? Poi c’è la inusuale velocità con cui venne approvata, appena tre giorni, quasi che non venisse neppure letta. Roba da figlio del ministro super-raccomandato, insomma. Ma più grave, spiega Lauer che invece l’ha letta, è che non contenga alcun dato concreto, nessuna misura sperimentata e impiegabile rispetto alla tesi: elementi teorici e pratici per la costruzione di un razzo a propulsione liquida. Dulcis in fundo, un intero capitolo è interamente copiato, senza attribuzione, da una rivista dell’Associazione per i viaggi spaziali.
Il punto sui collaboratori, sottolineato dalla sentenza di Monaco, è importantissimo. Privo di vere qualificazioni nella tecnologia missilistica, in realtà von Braun rivelò eccellenti qualità di manager, capace di coordinare e delegare il lavoro dentro organizzazioni complesse. E questo spiegherebbe la sua carriera sotto il nazismo, che gli mise a disposizione centinaia di collaboratori, ingegneri ed esperti per i progetti militari. Nessuno di questi, nella base segreta di Peenemünde, aveva interesse a mettere in discussione l’uomo che consentiva loro di essere lontani dalla guerra e dai bombardamenti.
Ma i razzi per gli americani li avrà pur costruiti, si obietterà. Agli occhi dei vincitori, von Braun era la testa dietro lo sviluppo dei missili tedeschi. Per questo, ancorché nei primi interrogatori si fosse dichiarato «un convinto nazista», lo vollero e gli aprirono i loro laboratori. Ma c’è un dettaglio: von Braun impose che con lui emigrassero verso gli Usa oltre 120 persone, il suo intero staff. Gesto di umana solidarietà, oppure, suggerisce Lauer, forse egli non era in grado da solo di spiegare il funzionamento delle V2, tantomeno di costruirle senza la sua squadra, i suoi scienziati, ingegneri e specialisti. Che da quel momento gli dovettero gratitudine eterna, avendoli lui salvati dal carcere o da una vita senza qualità nella Germania distrutta. Così anche in America continuò a operare la struttura gerarchizzata di Peenemünde, divisa in dipartimenti guidati da direttori che rispondevano soltanto a von Braun, prima nella US Army poi nella stessa Nasa.
Lauer non trae conclusioni definitive. Ma il mito del padre di tutti i missili non regge. E nel cinquantesimo dello sbarco lunare, invita storici e curiosi a leggere e analizzare criticamente la storia di Wernher von Braun. Dove «molte cose non quadrano».