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 2019  gennaio 30 Mercoledì calendario

Gli scienziati dei dati in redazione

«Mille giornalisti americani licenziati in un giorno» è una notizia che stupisce anche in tempi di conclamata crisi dell’editoria. È successo mercoledì 23 gennaio, con gli 800 esuberi di Verizon Media, i 250 di Buzzfeed e la ventina nei giornali locali del gruppo Gannett. Posti di lavoro che scompaiono a ritmi più elevati di quelli di altri settori industriali altrettanto colpiti dall’automazione, ma che perlomeno hanno trovato rappresentanza politica e sono diventati un tema di confronto elettorale. I giornalisti invece sono «casta», «privilegiati», «giornalai» nelle parole di primari esponenti del governo, i quali si augurano la chiusura degli organi di informazione e se ne rallegrano con tanto di hashtag sui social quando succede, sai che risate, così come fa il presidente degli Stati Uniti, da bravi followers dei regimi autoritari e dispotici che i giornali li chiudono senza nascondersi dietro l’innovazione digitale e i giornalisti li incarcerano e li uccidono alla vecchia maniera. Ma al di là di queste miserie, colpisce che la crisi coinvolge old e new media, ormai senza distinzione tra carta e digitale. C’è che né l’una né l’altra hanno ancora trovato un modello di business sostenibile, nonostante alcune splendide eccezioni che da alcune settimane raccontiamo sulla Stampa, in un mercato pubblicitario dominato da Google e Facebook. 
Mentre le forze populiste soffiano sul fuoco, le istituzioni europee discutono la direttiva sul copyright, un primo tentativo per costringere le grandi piattaforme digitali a pagare agli editori, e agli autori, una quota di ciò che guadagnano sul lavoro e sugli investimenti altrui. Se ne discute, si avverte una maggiore consapevolezza pubblica e la proliferazione delle fake news fa tornare la fiducia nelle istituzioni giornalistiche serie. In questi giorni, negli Stati Uniti si è aperto un gran dibattito sul futuro del giornalismo, a cominciare dal libro dell’ex direttrice del New York Times, Jill Abramson, Merchant of Truths, che racconta la sua storia di prima donna executive editor del più grande giornale del mondo, poi licenziata perché non si è voluta arrendere alla dittatura dell’algoritmo in redazione (e, in realtà, anche per altro: lei stessa ammette di non aver gestito bene il lavoro redazionale). Il tema posto da Abramson è interessante, al netto del suo conservatorismo tecnologico, così come l’analisi dell’avvento nefasto, secondo lei, dei nuovi player digitali come Vice e Buzzfeed sul mercato delle notizie. Ma se è vero che il New York Times, senza di lei, e il Washington Post, con Jeff Bezos, si sono avvicinati al modello Buzzfeed facendo entrare in redazione data scientist e ingegneri, senza per questo rinunciare alla qualità dell’informazione, è altrettanto vero che il grande mescolamento in corso, detestato da Abramson, ha trasformato Buzzfeed da sito di liste e gattini a editore capace di vincere Pulitzer e di fare straordinari scoop su Donald Trump. 
Nessuno sa ancora come andrà a finire né se i media attuali saranno destinati a ridimensionarsi ulteriormente oppure a rinascere con formule non ancora conosciute. Il cuore della crisi, però, rivoluzione digitale o no, governi populisti o no, resta quello semplice semplice ricordato da Jill Lepore sull’ultimo numero del New Yorker, in una lunga riflessione sul futuro del giornalismo avviata proprio grazie al libro della Abramson: «I giornali non sono una missione né un’istituzione caritatevole, ma il business di cercare e di pubblicare notizie che la gente vuole ed è disposta a pagare». La frase riportata dalla Lepore, attenzione, è del direttore di un direttore di giornale del Missouri, nell’anno 1892.