la Repubblica, 30 gennaio 2019
Coding, la lingua del futuro
Sono decine, sedute sulle gradinate dell’aula magna dell’Università Campus Bio-Medico di Roma con i portatili in grembo. Programmano: realizzano app, videogame, software. Tutte donne, tutte studentesse dei licei italiani arrivate nelle capitale per partecipare a un evento dedicato al coding. L’arte di scrivere catene di istruzioni e comandi per far svolgere a computer e smartphone un certo compito, fino a ieri era mestiere quasi esclusivamente maschile. Adesso non più: si pensa sia una delle poche conoscenze che possa assicurare un futuro in un mondo dove, in appena dieci anni, il 50 per cento delle professioni verranno stravolte da automazione, intelligenza artificiale e robotica. Il McKinsey Global Institute ha perfino dato i numeri: ottocento milioni di persone dovranno aggiornare le proprie conoscenze se non vogliono rischiare di rimanere a casa. In un Paese come l’Italia, arretrato dal punto di vista del digitale e dove la laurea è sempre meno di moda, non si sa bene che pesci prendere e il coding appare come una buona assicurazione. Un antidoto alla paura profonda di non poter dare ai propri figli uno strumento utile per consentigli di vivere una vita decente, considerando che stando al World Economic Forum siamo solo al 45esimo nella classifica dei Paesi più preparati ad affrontare la nuova economia nata sul digitale. Di qui il boom di eventi dedicati alla programmazione: siamo secondi solo agli Stati Uniti. Ma le cose, come sempre, sono più complesse di quanto sembrano.
«L’apprendere un linguaggio di programmazione non fornisce alcuna garanzia. Non è quello il punto», racconta Emily Thomforde, 35 anni, con il suo piglio severo. Promotrice della manifestazione Coding Girls,lavora per il dipartimento dell’educazione della contea di San Mateo in California, poco a sud di San Francisco e per 119 scuole pubbliche forma gli insegnanti in materia di programmazione e cultura maker. «Oggi si usano diversi linguaggi e Scratch è un ottimo primo passo per impararli. Ma difficilmente qualcuno di questi verrà usato domani. Invecchiano, come tutto, e vengono soppiantati. Il vero obbiettivo è capire la programmazione in generale, per superare ostacoli dividendoli in problemi più piccoli e più facili da risolvere. Imparare a analizzare quel che ci circonda in maniera strategica, capendo come gestire i dati che compongono un sistema. Questo è il senso del pensare in maniera computazionale».
Va sotto il nome di Costruzionismo ed è una teoria dell’apprendimento basata sul Costruttivismo. Sostiene che si impara in modo più efficiente se si è coinvolti nella produzione di oggetti, gli” artefatti cognitivi”, chepossono essere fisici o digitali. La parentela con l’apprendimento esperienziale del pedagogo svizzero Jean Piaget è stretta. Il testo di riferimento si intitola Mindstorms: Children, Computers and Powerful Ideas ( I bambini e il computer) ed è stato pubblicato nel 1980. Lo ha scritto Seymour Papert, sudafricano di nascita poi naturalizzato statunitense. Allievo di Piaget, usava i linguaggi di programmazione per insegnare ai ragazzi la matematica divertendoli.
Non è l’unico vantaggio del coding, il divertimento. Se siete mai passati davanti a una scuola media o a un liceo, vi sarete accorti che la maggior parte degli studenti prima di entrare è china sugli smartphone. Di contenuti digitali ne consumiamo tanti, qualcuno crede siano troppi. Il Pew Research Center parla di un 45 per cento degli adolescenti che è costantemente online e di un 95 per cento che possiede uno smartphone o vi ha accesso. Lo studio della programmazione permette di passare dalla poco invidiabile posizione di meri consumatori a quella di persone capaci di inventare. O, quantomeno, che conoscono il Dna di quel che passa sugli schermi di telefoni e pc. Non è poco. Ai figli si spiega come attraversare la strada, poi però nel digitale li si abbandona a loro stessi. Li si lascia in mezzo a una piazza nell’ora di punta, senza dar loro alcuna indicazione su come fare per tornare a casa.
«Dalla scuola alle aziende siamo tremendamente indietro su tutta la filiera», commenta con amarezza Mariano Corso, professore del Politecnico di Milano dove insegna Organizzazione e risorse umane ed Economia e organizzazione aziendale. «Penso al coding e alla modellistica matematica. Occorrerebbe lavorare sulle competenze, sulle materie, sull’approccio. Puntare sulla progettazione di sistemi, software e perfino di idee. La stessa filosofia non è solo la sua storia ma anche la sua applicazione». Gli squilibri, in Italia, sarebbero due: non abbiamo a scuola o all’università abbastanza materie Stem, acronimo di Science, technology, engineering and mathematics (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica); non creiamo negli studenti la capacità di trasformare le proprie passioni in un lavoro. Non è un caso che da noi solo il 26 per cento dei giovani dopo il liceo entra all’università, quando in Inghilterra sono il 52 per cento. «I ragazzi da noi vengono “spenti” e questo si riflette sulla società», prosegue Corso. «In fatto di brevetti e di startup siamo agli ultimi posti. Ed è inutile vantarsi troppo dell’eccellenza italiana: da noi vengono a studiare 70 mila studenti dall’estero, contro i 300 mila studenti italiani che vanno in Inghilterra. Per questo alcune materie come il coding sono importanti».
Vanno però insegnate nel modo giusto. In Corea del Sud, dove lo scrivere software è materia scolastica e la tecnologia è di casa, hanno un problema serio. La rigidità dell’insegnamento e delle gerarchie producono ottimi esecutori incapaci però di improvvisare e di uscire dal seminato. Non è il massimo in questa fase storica. «Mi hanno chiamato per questo. Sanno che devono prendere un’altra strada», spiega Massimo Banzi, uno dei “padri” di Arduino, il processore open source nato in Italia e usato spesso sia dai maker sia da chi insegna la cultura dell’artigianato digitale in Spagna come negli Stati Uniti. «Le sole persone che possono avere successo, inteso come il raggiungimento dei propri scopi, sono quelle che hanno una nuova mentalità», conclude Emily Thomforde. «E il coding in questo aiuta molto. Meglio: aiuta una educazione diversa». L’unica arma a disposizione per affrontare il futuro.