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 2019  gennaio 30 Mercoledì calendario

«Chiamatemi l’Indiana Jones dell’arte rubata»

La sua ultima impresa, scrive la stampa inglese, «sembra uscita da un romanzo di Dan Brown». Non sorprendentemente considerato che il protagonista ha un soprannome da cinema: "l’Indiana Jones dell’arte". Per la precisione, dell’arte rubata, falsificata, comunque con il trucco. Il suo (vero) nome, per dirla nello stile di un altro eroe del grande schermo, è Brand, Arthur Brand. Ma di professione non fa lo 007: è un detective di capolavori trafugati. Diciamo meglio: il più grande detective vivente in questo campo. Da Van Gogh a Picasso, passando per il recente ritrovamento di due bassorilievi visigoti e per il suo più grande colpo: il recupero delle statue di bronzo note come "i cavalli di Hitler", su cui ha scritto un libro di imminente pubblicazione, nessuno è più bravo nel mettersi sulle orme di quadri o sculture scomparse. Nato nei pressi di Amsterdam 48 anni fa, di soprannomi potrebbe averne un altro: l’olandese volante, come la proverbiale nave fantasma e i suoi epigoni, tra cui Marco Van Basten nel football, perché non sta mai fermo. Le indagini lo portano spesso in Inghilterra, dove abbondano i collezionisti d’arte, rubata o meno. E in Italia, il Paese con il più grande patrimonio artistico al mondo, perciò spesso nel mirino dei ladri. «Ma avete anche», dice a Repubblica passando da Londra, «la migliore polizia del pianeta per i beni culturali».
Cominciamo dalla fine, mister Brand: perché a qualcuno la storia dei bassorilievi visigoti ricorda i romanzi di Dan Brown?
«Perché erano spariti nel 2004 dalla misteriosa chiesa di Santa María de Lara vicino a Burgos, in Spagna, perduta per secoli, riscoperta nel 1921 da un prete del posto e contraddistinta da inspiegabili influenze cristiane e pagane, simboli latini ma pure islamici».
Dove e quando ha ritrovato i bassorilievi?
«Qualche giorno fa nel giardino di una coppia di aristocratici britannici, che li avevano acquistato pensando fossero ornamenti botanici, senza immaginarne il reale valore».
Ora dove sono?
«Quando ho spiegato loro che erano artefatti da milioni di euro, rubati quindici anni prima, volevano distruggerli: temevano di essere accusati di contrabbando. Li ho persuasi a restituirli all’ambasciata spagnola».
Guadagnandoci quanto?
«Niente, a parte un bonus per la mia reputazione».
Fa gratuitamente il detective d’arte rubata?
«Niente affatto. Ma non sempre vengo retribuito. Il mio lavoro consiste nell’aiutare i collezionisti, quando vogliono acquistare un’opera d’arte, a capire se è un falso, se è rubata, se il prezzo è giusto. E per questo vengo pagato. Il recupero dei capolavori trafugati è il lato più avventuroso e meno profittevole: lo faccio a mie spese. Sebbene talvolta riceva compensi da musei e compagnie di assicurazioni, quando riporto loro un tesoro rubato».
Quando lo fa gratis ricava comunque una bella pubblicità: come nel caso delle statue di bronzo che Hitler teneva nel suo ufficio al Reichstag di Berlino.
«In effetti il New York Times lo ha descritto come il più clamoroso ritrovamento nella storia dell’arte rubata. Ecco perché ho scritto un libro per raccontare come ho fatto».
Come si diventa detective di arte rubata?
«Una scuola non c’è. In un certo senso devo tutto a mio nonno, ai nuraghi sardi e a Malaga».
Che c’entra suo nonno?
«Aveva un compagno di classe che era il più famoso falsario d’arte del suo tempo: vendette falsi perfino a Goering durante l’occupazione nazista e poi diventò un eroe di guerra. I racconti del nonno mi hanno fatto sentire fin da piccolo il fascino di questo mondo».
E i nuraghi?
«Furono il mio primo incontro diretto con la storia e con l’arte, durante una vacanza in Sardegna. Una visione allucinante».
Anche a Malaga andò in vacanza?
«No. Studiavo lo spagnolo. In realtà lo imparai meglio in discoteca che al college. Ma nel tempo libero andavo in spiaggia a cercare monete con un metal detector, trovai qualche sesterzio dell’antica Roma e iniziai a collezionarne».
Qualcuno però le avrà fatto da maestro.
«Il migliore di tutti: un falsario olandese pentito che a un certo punto si mise a lavorare per Scotland Yard. Mi ha insegnato tutto lui, a partire dalle indagini sulla tomba di un re in Afghanistan depredata dai tombaroli».
Esistono anche a Kabul?
«Sì, ma i più attivi sono quelli italiani: per forza, con il patrimonio culturale che ha il vostro Paese. In compenso avete anche un corpo speciale di 200 carabinieri per il recupero dei beni culturali. Pensi che Scotland Yard ha soltanto quattro agenti per questo genere di indagini. E la polizia olandese uno».
Sono molti i falsi d’autore?
«Il 30% dei quadri venduti».
È difficile vendere un’opera d’arte rubata?
«Molto. È un mercato di nicchia: persone che si accontentano di tenere un quadro in soffitta, o in una stanza segreta, o magari in cassaforte, perché non possono farlo vedere a nessuno. E poi c’è il crimine organizzato, che le utilizza per pagamenti al posto del denaro o per ottenere sconti dalla giustizia. Come fece la ’ndrangheta con i due famosi Van Gogh rubati: il mafioso che li ha restituiti alla polizia ha avuto due anni di meno di carcere».
Quanta parte dell’arte rubata viene recuperata?
«Poca, il 10%. Per due ragioni: passa rapidamente da un proprietario all’altro, per cui il decimo possessore non ha idea di chi sia il ladro; e se un ladro o un proprietario consapevole che è arte rubata si sente scoperto, preferisce distruggerla. Eliminata la prova, non c’è più il reato».
Cosa ci vuole allora per fare il detective d’arte rubata?
«Coraggio, innanzitutto. Devi avere contatti con criminali incalliti, che minacciano regolarmente di ucciderti o ben che vada riempirti di botte, se fai trapelare qualcosa. Ma serve anche una buona dose di pragmatismo, per convincere il proprietario di un capolavoro rubato che gli conviene consegnarlo a me, anziché bruciarlo».
La sua sembra una vita da film.
«Non è escluso che prima o poi lo diventi. Mi chiamano l’Indiana Jones dell’arte, no?».