la Repubblica, 30 gennaio 2019
La cyberguerra scatenata dal robot Tappy
Per lo spionaggio digitale su larga scala, operato attraverso milioni di smartphone e le reti mobili, bisognerà aspettare la prossima puntata. Per ora la “pistola fumante” messa sul tavolo dalle autorità americane per accusare il colosso Huawei è un braccio robotico di nome Tappy. C’è ancora un video online del settembre del 2012 dove lo si vede all’opera. È stato concepito dalla statunitense T-Mobile per mettere alla prova grandi quantità di telefoni. Con il suo dito artificiale simula decine di gesti umani sugli schermi tattili verificando che il dispositivo sia costruito a dovere. Sette anni fa Huawei cercò in tutti i modi di ottenere informazioni su questo robot mirabolante. Mandò i suoi dipendenti americani con ogni scusa possibile nei laboratori della T-Mobile, dove si testavano anche i modelli del costruttore cinese, fino ad irritare la compagnia americana. La situazione divenne così tesa che un tecnico Huawei a gennaio del 2013 scrisse una mail al quartiere generale di Shenzhen: «Non possiamo più chiedere nulla sul robot. Sono molto arrabbiati».Secondo l’accusa invece furono scattate decine di foto e il robot alla fine replicato. Di più: Huawei avrebbe istituito «un programma per premiare i dipendenti che rubano informazioni riservate prese ai concorrenti». Insomma, spionaggio industriale vecchia maniera che se provato è comunque grave anche se si tratta di una pratica diffusa.
A Washington però sono anni che avanzano un sospetto ben più pesante. Fin dall’amministrazione Obama è stato più volte ribadito che la compagnia di Shenzhen, assieme all’altro colosso Zte, spierebbe interi Paesi attraverso i telefoni e le reti telematiche che vendono. «Tecnicamente è possibile e questo lo ammettono tutti gli addetti ai lavori», aveva spiegato poco tempo fa Stefano Mosconi, ingegnere italiano con un lungo passato alla Nokia e cofondatore della finlandese Jolla che ha prodotto una delle poche alternative ai sistemi operativi per smartphone di Apple e Google. «Ma non è detto che sia poi davvero successo».
Ad esempio è possibile mettere le mani nel firmware del sistema operativo per smartphone Android di Google. I vari produttori di telefoni lo possono modificare a piacimento. Dunque potrebbero in teoria inserire strumenti di spionaggio che si attivano se vengono usare determinate parole o certe funzioni. L’invio di dati può avvenire attraverso connessioni sporadiche a server esterni al Paese o interni. Dati cifrati non leggibili da terzi attraverso aggiornamenti del software o delle applicazioni o ancora attraverso la raccolta di informazioni in fase di assistenza tecnica. Una cosa simile potrebbe avvenire anche sulle reti mobili. Si potrebbe così tracciare il traffico digitale di un intero Paese e ottenere la mappa della sua infrastruttura. Iniziando dalla qualità e dalla larghezza di banda, dunque dai probabili investimenti futuri, E poi le abitudini delle persone, i consumi sul Web fra streaming ed e-commerce, gli spostamenti registrati dal gps.
Sempre in teoria, perché nella pratica si rischia di lasciare una traccia che può diventare in un battibaleno un capo di accusa. Gli obbiettivi sensibili poi, come agenzie governative, politici, aziende rilevanti, sono in genere protetti e attaccarli non è banale.
Che online sia in corso una guerra, o se preferite una cyberguerra, è cosa nota a tutti e tutti vi prendono parte inseguendo i propri interessi. Solo in Germania, furti e sabotaggi hanno provocato 43 miliardi di danni all’industria stando ad una ricerca dell’associazione di categoria Bitkom che rappresenta 2.600 aziende dell’economia digitale. È un campo nel quale non si fanno prigionieri e non esistono alleati.