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 2019  gennaio 30 Mercoledì calendario

Gli auto-reclusi in casa italiani

Mai sentito parlare di Hikikomori? Probabilmente no, eppure, anche in Italia, questo termine sta tristemente prendendo un posto – anche se in parallelo – nella nostra società. Il termine, giapponese, tradotto significa “stare in disparte, isolarsi” e così, infatti, sono appellati i giovani nipponici che scelgono di isolarsi dal mondo reale, per vivere solo in quello virtuale, scegliendo di passare le giornate immersi tra web e giochi elettronici. Costoro arrivano a non uscire di casa anche per mesi. Non hanno alcun interesse per i rapporti interpersonali e per la vita sociale. Giungono a chiudersi nelle loro camere, mangiare il minimo indispensabile, avere rari contatti persino con i genitori, nel caso dei giovani, o di amici e parenti, nel caso di soggetti adulti. I primi casi segnalati in Giappone risalgono agli anni ’90. Oggi rappresentano l’1% della popolazione, oltre 500.000 casi. Un fenomeno in crescita, oltretutto. È, quindi, una forma d’isolamento estremo dal resto del mondo. La camera diventa il pianeta in cui si vive, il web e i giochi elettronici la società attraverso il quale s’interagisce.

RIFIUTO DELLA SOCIETÀ
Parrebbe una visione da film di fantascienza o dell’orrore, eppure è una triste realtà. Si pensa che, all’origine di questa – che è una vera e propria patologia psichica – esista una non accettazione del contesto sociale e delle tradizioni del paese in cui si vive. Il Giappone, è risaputo, è una nazione complessa, che impone alla popolazione ritmi di vita esasperanti, livelli qualitativi sempre più alti da raggiungere sul campo del lavoro. A tutto questo, alcuni scelgono di dire “no”, ma a modo loro. Si isolano. Non accettano le rigide regole sociali che li vorrebbero perennemente efficienti, pronti a dare l’anima pur di dimostrare di essere in grado di non abbassare il livello nazionale di iper efficienza. Ma attenzione: sta accadendo qualcosa anche da noi. Alcuni casi di cronaca recenti, ci raccontano di italiani che – così come certi giapponesi – stanno scegliendo di isolarsi dal mondo, evitando tenacemente di uscire di casa e di avere qualsiasi tipo di relazione col mondo reale. Sono ben 100.0000, nel nostro Paese, i casi accertati di Hikikomori. In questo senso, pochi giorni fa, ecco apparire ed essere molto rilanciata sul web una notizia raccapricciante: nel nord del Salento un’intera famiglia avrebbe scelto, due anni fa, di isolarsi dal mondo. Per ben due anni, per l’appunto, il nucleo familiare – composto da madre, padre, figlio di 15 anni e figlia di 9 – avrebbe scientemente deciso di non far più parte della società. L’unica a uscir di casa arebbe stata la figlia minore, per recarsi a scuola e comprare le scarse vivande che sarebbero servite ad alimentare la famiglia di Hikikomori nostrani, con derrate alquanto bizzarre: merendine, caramelle e biscotti. Sarebbero infine intervenuti i servizi sociali del Comune in questione, trovando il nucleo familiare inc ondizioni penose, con il figlio denutrito e gli stessi genitori in condizioni fisiche e mentali precarie.

VICENDA SCONCERTANTE
Ora, quasi certamente questa è da considerare una notizia fasulla – fake news, come si usa dire adesso – poiché nessuna fonte precisa il luogo in cui la vicenda sarebbe avvenuta, il nome dei protagonisti e quant’altro. Resta il fatto che ha avuto grande risonanza su Internet proprio perché è da considerarsi verosimile: l’isolamento provocato da una sorta di “dipendenza dal web” è una possibilità reale, come dimostrato proprio dalle storie degli Hikikomori. Anche questo dovrebbe essere analizzato tra le riflessioni che, ora, stanno accendendo un dibattito internazionale sul tema dell’isolamento volontario dalla società. Troppi stimoli, troppe aspettative, troppo stress. Ancora una volta, l’umanità non viene messa in grado di comprendere come gestire la propria esistenza di pari passo all’evoluzione sociale e tecnologica. Guarire comunque è possibile, a patto che si riconosca di soffrire di una patologia psichica, che va curata attentamente, utilizzando, oltre alle sedute psicologiche, i giusti mezzi per reinserire queste persone – gradualmente – nel mondo che avevano deciso di ignorare. Forse perché, fondamentalmente, si sentivano ignorati.