Corriere della Sera, 30 gennaio 2019
Come aiutare i nostri figli contro la droga
Ci vorrebbe un poeta per scrivere la Spoon River dei ragazzi morti per droga. A guardare le foto che sta pubblicando il Corriere nell’inchiesta partita dal bosco di Rogoredo, tutti quei volti di adolescenti che non ci sono più, vengono a mancare le parole. Ti ammutolisce un misto di rabbia per tanta bellezza sprecata, angoscia per quello che può accadere ai tuoi ragazzi, sconcerto quando senti dire che il problema è la proibizione, mentre invece è la nuova disponibilità, sotto casa e per tutti, di sostanze molto più letali di quando eravamo giovani noi.
L e storie di chi non ce l’ha fatta, ed è morto nei bagni di una stazione a Udine o sulla barella di un ospedale dismesso a Roma, non si possono più ascoltare da chi le ha vissute. Di loro resta solo lo strazio dei parenti. Ma ogni tanto dal bosco spunta una voce che può ancora narrarsi in prima persona, perché ne è uscita, come la ragazza milanese che si è confessata l’altro giorno a Elisabetta Andreis e Gianni Santucci sul Corriere. E allora, da questi rari documenti provenienti dal fronte, capisci che il problema fondamentale è il tempo: quanto ce n’è tra quando un ragazzo prova la droga per la prima volta e quando non c’è più niente da fare?
Lasciamo stare tutto quello che viene prima e dopo, e la solita sterile polemica tra chi vuole reprimere di più e chi vuole permettere di più. Tanto ormai nei fatti seguiamo tutti la stessa politica: quella dello struzzo, che insegna a mettere la testa sotto la sabbia e a non guardare, quasi come se ci fossimo rassegnati a questa tragedia generazionale, che suscita ormai meno allarme del bullismo sui social e delle slot machine, e convive con i negozi che vendono marjuana light agli angoli delle strade come fossero sigarette aromatiche.
Proviamo invece a concentrarci su quell’attimo cruciale tra il primo buco e l’ultimo libero arbitrio, quando «hai ancora un piede dentro la realtà», come dice la ragazza del bosco, e puoi ancora ascoltare, se ti parlano. «Avrei voluto qualcuno che mi entrava in testa... Nessuno ci riusciva, da sola non potevo uscirne, però».
Lei alla fine l’ha trovato, un angelo che le ha parlato. Un «operatore di strada» che non si è limitato a fornire siringhe sterili, che lavora in una comunità, conosce il cuore degli adolescenti e si è aperto una piccola breccia nella sua mente semplicemente con la parola. Ma quanti giovani hanno questa fortuna? E, se non ce l’hanno, che cosa possono fare i genitori in quell’attimo fuggente, tra quando sospettano che il figlio si droghi e quando è troppo tardi?
Forse il dibattito dovrebbe umilmente ripartire da qui. Perché oggi le cose sono messe in modo tale che anche i più determinati e coraggiosi dei padri e delle madri rischiano di dover aspettare mesi, forse un anno, anche più, prima di riuscire a trovare un posto per il figlio in una comunità, la casa fuori dal bosco dove i ragazzi si salvano. Si passa per una lunga e complessa trafila, che parte dai servizi sociali o dai SerD (servizi per le dipendenze patologiche), e inizia sempre con la risposta di prammatica: niente si può fare senza la volontà del ragazzo. Ma il ragazzo non vuole, mai. È ancora convinto di potersi «gestire», ha una fiducia illimitata e infondata nella sua ancora acerba neurobiologia. Mente, si nasconde, si ribella. E allora comincia il calvario ben noto a tanti genitori: le prime analisi delle urine, la battaglia del controllo (con chi vai? dove vai?), gli accertamenti tossicologici prescritti dalla legge, la scelta di un avvocato, il tribunale dei minori. Passano mesi. E se il giovane non ha ancora fatto danni ad altri, ma solo a se stesso, non è affatto detto che il giudice disponga l’invio in comunità. Per Desirée, la ragazza orrendamente predata e uccisa a Roma, il ricovero venne negato tre giorni prima che morisse. E se non vanno in comunità, dove vanno la sera? Nella piazza dello spaccio, tra le immondizie di un palazzo abbandonato, di nuovo nel bosco.
Così si ritarda, oltre il limite, l’incontro con una presenza, con una persona, l’unica cura per le tossicodipendenze (e anche per altro). A giudicare da quello che leggiamo e vediamo, il sistema non funziona. È come se si fosse tarato su una progressiva riduzione del fenomeno, sperando di renderlo marginale. E oggi non riesce a reggere la improvvisa e nuova emergenza: nell’ultimo mese sono morte 25 persone, quasi una al giorno, 11 di eroina, 11 di sostanze non determinate, una di speedball, un’altra di cocaina, un’altra ancora di metadone non prescritto (sono i dati in tempo reale che fornisce il sito geoverdose.it ).
«Se aiutassimo i genitori ad agire prima, anche con il sostegno dei tribunali minorili, prendendo direttamente l’iniziativa di portare questi ragazzi nella comunità che dà loro più affidamento, saltando il filtro della burocrazia, forse qualche vita la salveremmo», dice Giuseppe Mammana, psichiatra e presidente di Acudipa, un’associazione per la cura delle dipendenze patologiche.
C’è insomma chi vorrebbe liberalizzare le droghe e chi vorrebbe liberalizzare le cure. Forse varrebbe la pena di discuterne. Ma dove? La conferenza nazionale sulle droghe, che una legge del ’90 stabiliva si dovesse tenere ogni tre anni per verificare l’efficacia delle norme ed eventualmente correggerle, non si riunisce da dieci anni. Importa ancora a qualcuno quel che succede nel bosco?